Denim day. Indossare i jeans per ribadire che la violenza contro le donne non è mai colpa delle vittime

L’ultimo mercoledì di aprile migliaia di persone in tutto il mondo indossano un paio di jeans per protestare contro la violenza di genere: è il Denim day.

  • Ogni terzo mercoledì di aprile ricorre il Denim day, una giornata istituita in California nel 2000 per protestare contro la violenza di genere.
  • Indossare un paio di jeans il 24 aprile è un modo per protestare contro il victim blaming, cioè l’abitudine di additare la vittima come corresponsabile della violenza subìta in base al suo abbigliamento o ai suoi comportamenti.
  • L’organizzazione Break the silence organizza flash mob e manifestazioni nelle piazze delle principali città d’Italia.

Muro Lucano, provincia di Potenza, 1992. Una ragazza diciottenne viene violentata dall’istruttore di guida di 45 anni nel corso della prima lezione. L’uomo, dopo averla fatta accostare in una strada isolata, la costringe a uscire dalla macchina, le toglie i jeans e la assale sessualmente. A seguito della denuncia della ragazza l’istruttore viene prima processato e poi condannato, nel 1999, a due anni e due mesi di reclusione. La sentenza viene però ribaltata dalla Corte di Cassazione in seguito al ricorso dell’uomo: per i giudici infatti non si può parlare di stupro perché la ragazza, al momento dell’aggressione, indossava un paio di jeans. Trattandosi di un capo di abbigliamento particolarmente aderente, sarebbe stato impossibile per l’aggressore sfilarli senza consenso.

Denim Day
Nella nostra società è ancora troppo radicata la convinzione che i comportamenti della vittima la rendano corresponsabile del reato subito © Markus Spiske

Denim day, un’iniziativa contro il victim blaming

Una motivazione così priva di fondamento suscita immediatamente le reazioni delle parlamentari italiane che, per protesta, indossano i jeans in aula, ambiente dove è consuetudine indossare abbigliamento ben più formale. Colpita da questa storia, la californiana Patricia Occhiuzzo Giggans, direttrice esecutiva dell’associazione Peace over violence, decide di scalare l’iniziativa istituendo un Denim day. Il primo evento coinvolge 12 milioni di persone e, dal 2011, il Denim day è riconosciuto come giornata istituzionale da 20 Stati americani. Da allora, l’atto di indossare jeans l’ultimo mercoledì di aprile diventa una forma di protesta contro gli abusi sessuali. Dal 2000 il Denim day si evolve a livello nazionale e internazionale, diventando una campagna educativa premiata per la prevenzione dello stupro, che ha tra i suoi sostenitori anche brand globali come Guess, sponsor ufficiale con la Guess Foundation.

Quello dell’abbigliamento delle vittime nei casi di violenza di genere è infatti un tema che travalica i confini nazionali e che, purtroppo, è ancora più che mai attuale. Con il termine victim blaming, o vittimizzazione secondaria, si intende infatti il processo di colpevolizzazione e di biasimo della vittima, a cui si attribuisce una parte di responsabilità per la violenza di cui è stata oggetto. Considerare come rilevanti da un punto di vista processuale l’abbigliamento che indossava, la quantità di alcool che aveva assunto o il numero di partner sessuali avuti durante la vita, infatti, significa prendere in considerazione il fatto che la vittima abbia contribuito all’evento spiacevole, che “se la sia cercata”.

Denim Day
Sostenere che la vittima di un abuso sessuale debba aver per forza collaborato perché indossava jeans stretti significa compiere un atto di victim blaming © Claire Abdo

Nonostante la sentenza che ha dato origine all’iniziativa sia stata emessa nel nostro paese, la campagna legata al Denim day non è così nota in Italia. Da qualche anno, però, l’associazione Break the silence Italia è impegnata nell’organizzazione di flash mob nelle città più importanti con l’obiettivo di mantenere sempre alta l’attenzione sulla “sentenza dei jeans”. Stereotipi e pregiudizi sono infatti tutt’altro che assenti dai processi italiani per stupro. La Cedu, Corte europea dei diritti dell’uomo, ha più volte condannato l’Italia per i forti pregiudizi contro le donne espressi da giudici e avvocati: come, ad esempio, il richiamo all’intimo indossato dalla vittima al momento del fatto, le sue relazioni sentimentali e i rapporti sessuali occasionali avuti nel corso della vita.

Denim Day Torino
L’organizzazione Break the silence organizza flash mob nelle piazze delle maggiori città d’Italia

Stando a una recente indagine condotta dall’Istituto nazionale di statistica (Istat), il 39 per cento della popolazione ritiene che una donna sia pienamente in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole. Alta anche la percentuale di chi è convinto che l’abbigliamento della vittima possa indurre la violenza sessuale nei suoi confronti: stiamo parlando del 23,9 per cento della popolazione. 15 persone su 100 invece pensano che, se la donna è ubriaca o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, sia in qualche modo corresponsabile. Inferiori, ma sempre allarmanti, le percentuali di intervistati che sostengono che una donna che dice “no” in realtà intenda “sì” (7,2 per cento) e che alle donne “serie” non capiti di venire violentate (6,2 per cento). Arriviamo poi all’1,9 per cento degli italiani secondo cui, se a obbligare la propria moglie o compagna è un marito o un fidanzato, non si tratta di violenza sessuale.

“La vittimizzazione secondaria purtroppo è molto radicata nel nostro modo di pensare” spiega Maria Chiara Cataldo, fondatrice insieme a Francesca Sapey e Giulia Chinigò dell’associazione Break the silence. “Faccio un esempio: recentemente mi è capitato, durante un incontro in una scuola, che gli alunni mi dicessero che Giulia Cecchettin avrebbe potuto non salire sulla macchina. Quale vittima, nel momento in cui sale su una macchina, sta pensando di andare a morire? Spostare il dito sulla vittima significa cercare una sua corresponsabilità ed è assurdo, anche perché nelle vittima si instaura una sorta di dipendenza psicologica nei confronti del suo carnefice. Una persona dipendente psicologicamente si va a fidare del proprio partner abusante, ma nell’immaginario comune è molto radicata la convinzione che una parte di colpa sia sua, perché avrebbe potuto in qualche modo sottrarsi”.

Il problema però non si estende solo alle persone comuni, ma coinvolge anche le istituzioni. “Una recente sentenza della Cassazione ha stabilito che si tratta di stupro anche quando la vittima non reagisce: stare ferme mentre si subisce una violenza non significa acconsentire all’atto. Però in Italia siamo molto indietro dal punto di vista legislativo. Il nostro codice penale parla di violenza sessuale solo in negativo, riferendosi a ciò che viene fatto sotto costrizione o obbligo. In Spagna, invece, ci si sta muovendo per avere una legge al positivo: ovvero è rapporto consensuale solo quando viene detto un sì chiaro ed esplicito, altrimenti si tratta di violenza sessuale.

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La vittimizzazione secondaria è un problema che riguarda istituzioni, persone comuni, ma anche le vittime stesse, che tendono a giustificare i propri comportamenti o il proprio abbigliamento al momento della violenza © Gonzalo Arnaiz

Break the silence e le vittime che si sentono in dovere di giustificarsi

“Come Break the silence raccogliamo le storie di moltissime ragazze e abbiamo notato una cosa: le vittime hanno la tendenza a giustificarsi, per come erano vestite o per i comportamenti che hanno tenuto nel momento in cui hanno subito la violenza. Questo accade perché, in Italia, quando si arriva al dibattimento in tribunale, per la vittima si apre un calvario. Per come è impostata la nostra giurisprudenza, l’interrogatorio va a indagare ogni minimo dettaglio per cercare una prova di corresponsabilità nella vittima. Quanto era sbottonata la camicia? Aveva bevuto o assunto droghe? Quanti partner sessuali ha avuto in passato? Nel nostro paese esiste ancora uno stigma pesante nei confronti delle donne sessualmente attive. La cultura patriarcale in cui ci troviamo concepisce il ruolo della donna come primariamente confinato alla cura della casa, del marito e dei figli. La donna sessualmente attiva deve esserlo nei confronti del compagno o del marito; la donna che ha più partner sessuali subisce ancora un giudizio morale pesante, tanto da parte della società quanto da parte delle istituzioni. Una dimostrazione lampante ad esempio è il licenziamento di qualche tempo fa della professoressa di Torino di cui l’ex partner ha diffuso le foto intime in rete: il reato lo ha commesso lui, ma è stata licenziata lei”.

Break the silence è nata, prima come pagina Instagram e poi come associazione, dopo che Francesca Cataldo, durante un’uscita con le amiche, è stata vittima di un pesantissimo catcalling che alludeva allo stupro. “Ho deciso di condividere la mia esperienza sui social seguita dalle mie socie e, nel giro di poco, ci siamo ritrovate sommerse da storie di violenza subita. Da lì è nato il nostro percorso di formazione, che ha coinvolto anche psicologi e avvocati, per arrivare ad avere informazioni da condividere e con cui dare forma a un discorso sul tema. La cosa che ci ha colpito di più fin da subito, infatti, era proprio il bisogno che sentivano le vittime di giustificarsi per provare di non aver fatto niente di sbagliato“.

“Quando abbiamo scoperto dell’esistenza del Denim day, abbiamo capito che era la giornata perfetta per noi proprio perché tutte le vittime tendevano a parlare del proprio abbigliamento nel momento in cui avevano subito la violenza o la discriminazione”, continua. “Va bene il 25 novembre perché si occupa della violenza sulle donne in generale, va bene l’8 marzo perché si occupa dei diritti, ma ci vuole anche una giornata dedicata a quanto noi, come società, possiamo contribuire all’eliminazione della violenza di genere se culturalmente smettiamo di pensare che la vittima se la sia cercata. Perché tu nella vita puoi anche non essere una persona abusante ma, se con le tue parole contribuisci alla cultura che vede la vittima come in parte colpevole di quello che ha subìto, sei a tua volta parte del problema. Rispetto a Peace over violence, che richiede semplicemente di indossare un paio di jeans l’ultimo mercoledì di aprile, noi abbiamo ritenuto che fosse più efficace fare un passo in più e quindi organizzare attività vere e proprie in piazze allestite di denim. A Torino è il quarto anno e ora ci siamo allargate ad altre città; quest’anno saremo a Perugia, a Bari, a Susa e a Padova”.

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