Greenpeace e ReCommon fanno ricorso in Cassazione per portare avanti “La giusta causa” sul clima contro Eni

Eni, il ministero dell’Economia e Cdp hanno provato a fermare “La giusta causa” per difetto di giurisdizione. Ma Eni e ReCommon non si arrendono.

  • Greenpeace Italia, ReCommon e 12 cittadini e cittadine hanno avviato una causa civile contro Eni e i suoi azionisti, il ministero dell’Economia e delle finanze e Cassa depositi e prestiti.
  • Il colosso petrolifero è accusato di aver contribuito all’emergenza climatica in corso e di aver provato a nascondere le responsabilità dei combustibili fossili.
  • I promotori dell’azione legale hanno fatto ricorso in Cassazione per stabilire se il giudice ordinario italiano abbia competenza per esprimersi su questi temi.

La causa civile contro Eni deve andare avanti. È per questo che le ong Greenpeace Italia e ReCommon, insieme a 12 cittadini italiani, hanno deciso di fare ricorso alle Sezioni unite civili della Corte suprema di cassazione, chiedendo di dichiarare che il giudice ordinario italiano ha giurisdizione su quella che hanno voluto ribattezzare come “La giusta causa”.

Perché Greenpeace e ReCommon hanno fatto causa a Eni

È passato circa un anno da quando, a maggio 2023, le ong Greenpeace Italia e ReCommon, insieme a 12 cittadini e cittadine che risiedono in zone d’Italia particolarmente vulnerabili alla crisi climatica, hanno dato via a quella che hanno voluto chiamare “La giusta causa”. Hanno cioè citato in giudizio Eni di fronte al Tribunale civile di Roma, insieme al ministero dell’Economia e delle finanze e a Cassa depositi e prestiti (Cdp) in qualità di azionisti.

Sono due le principali contestazioni rivolte al colosso dell’energia. La prima è quella di contribuire all’emergenza climatica in corso, contribuendo all’emissione in atmosfera di un volume di gas serra superiore a quella dell’Italia nel suo insieme. La seconda è quella di conoscere da più di cinquant’anni le conseguenze deleterie dell’uso dei combustibili fossili, ma di avere cercato di nasconderle attraverso strategie di lobbying e greenwashing. Gli attori chiedono quindi al giudice di obbligare Eni a tagliare le proprie emissioni del 45 per cento entro il 2030, seguendo cioè la traiettoria impostata dalla comunità scientifica per contenere il riscaldamento globale entro gli 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali.

L’iter processuale e il ricorso in Cassazione

La prima udienza è stata a metà febbraio, ma per il 13 settembre ne è prevista un’altra in cui il giudice si dovrà pronunciare sulle eccezioni preliminari sollevate da Eni, dal Mef e da Cdp. Questi ultimi, infatti, hanno sollevato il “difetto assoluto di giurisdizione”: ritengono cioè che nessun giudice abbia la competenza per esprimersi sulla questione. Se questa argomentazione venisse accolta, sarebbe un grosso ostacolo verso qualsiasi altro contenzioso climatico. Proprio a pochi mesi di distanza dalla storica sentenza con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) ha dato ragione alle Anziane per il clima, condannando la Svizzera per aver agito in modo insufficiente per il clima, violando i loro diritti umani.

“Il ricorso in Corte di Cassazione nasce dall’esigenza di definire al più alto livello giudiziario se nel nostro paese sia possibile procedere legalmente per tutelare i diritti umani messi in pericolo dall’emergenza climatica causata dalle attività umane”, precisano tramite una nota Greenpeace Italia e ReCommon. Puntando il dito contro Eni che, a detta loro, “non sembra avere alcuna intenzione di entrare nel merito delle accuse che le abbiamo mosso nell’ambito della ‘giusta causa’ sul suo impatto passato, presente e futuro sul clima del pianeta”.

 

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