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Si chiama Sahara Marathon ed è una maratona tra i campi profughi di Tindouf, in Algeria. Una volta all’anno ci ricorda che la decolonizzazione in Africa non è ancora finita.
A Tindouf, una città dell’Algeria che si trova vicino al confine con il Marocco e il territorio del Sahara Occidentale, ci sono alcuni campi profughi tra i meno conosciuti al mondo, ma al contempo tra i più longevi. Qui vivono circa 350mila persone che si proclamano cittadini della Repubblica Araba Democratica Sahrawi (Rasd, República Árabe Saharaui Democrática), quel territorio che si estende entro i confini del vecchio Sahara colonizzato dagli spagnoli (ora Sahara Occidentale) e poi occupato militarmente dal Marocco per via della sua ricchezza di minerali.
Tra queste persone ci sono coloro che sono scappati dal Sahara Occidentale negli anni Settanta a causa degli scontri che hanno visto contrapposte le forze armate marocchine e quelle del Fronte Polisario (Fronte di liberazione popolare di Saguia el Hamra e del Río de Oro), fondato nel maggio del 1973 da un gruppo di uomini e donne del popolo Sahrawi. Quando la guerra è cominciata dopo il ritiro della Spagna – avvenuto nel 1976 –, la Mauritania ha deciso di ritirarsi dalla contesa firmando un accordo di pace con i sahrawi nel 1979. Gli scontri sono andati avanti fino al settembre 1991 quando è stato firmato un cessate il fuoco mediato dalla missione di pace delle Nazioni Unite nel Sahara Occidentale (Minurso).
In questi campi, emblema di come una condizione temporanea possa trasformarsi in qualcosa di permanente, ci sono anche le famiglie dei primi profughi scappati dalla guerra. Giovani donne e uomini che, pur facendo parte di un popolo originario di una terra che si affaccia sull’oceano, non hanno mai visto l’Atlantico, né tantomeno sentito il profumo salato del mare. Questi campi sono ormai gestiti politicamente come fossero delle città pur non godendo di alcuna autonomia pratica visto che in questa regione l’acqua (e quindi il cibo) non esiste. La loro vita dipende dagli aiuti di stato e dalle missioni internazionali.
La richiesta del popolo Sahrawi è che venga riconosciuta l’indipendenza e la sovranità della Rasd come avvenuto per tutti gli altri stati africani e come chiesto dalle Nazioni Unite alla Spagna nell’ormai lontanissimo 1967. Il referendum per l’autodeterminazione, inizialmente previsto dopo l’addio spagnolo, non si è mai tenuto per l’ostruzionismo marocchino. A impedire la naturale formazione dello Stato è la presenza di risorse naturali e materie prime quali metalli, petrolio, ma soprattutto miniere di fosfato che hanno portato il regno del Marocco a invadere il territorio per farlo proprio, disseminandolo di mine antiuomo, e a erigere muri fino a costringere i sahrawi a indietreggiare e cedere sempre più terreno.
Nel Sahara Occidentale oggi ci sono 2.720 chilometri di muri e solo il 35 per cento dei 266mila chilometri quadrati di territorio è amministrato dal Fronte Polisario. Nonostante questo e, anzi, proprio per la voglia di conquistare prestigio a livello diplomatico, il Fronte non ha mai combattuto attraverso metodi e tecniche tipiche delle organizzazioni terroriste. I militari hanno sempre affrontato i nemici sul campo e i civili non hanno mai partecipato alle violenze. Al contrario, hanno rifiutato i corteggiamenti di Al Qaeda prima e dello Stato Islamico poi.
Per far luce su questa situazione e aumentare l’attenzione di stampa e istituzioni internazionali, ogni anno, dal 2000, si svolge tra i campi profughi di Tindouf la Sahara Marathon, una maratona nel pieno deserto dell’Hamada du Draa. Un luogo spesso equiparato a quanto più si avvicina a un ambiente alieno sulla Terra dai geologi che ci sono stati. All’evento sportivo partecipano più di 700 persone provenienti da decine di paesi che si sfidano su diverse distanze: la classica maratona di 42 chilometri, la mezza maratona di 21 chilometri e due gare da 10 e 5 chilometri. Gli atleti hanno – spesso per la prima volta – la possibilità di comprendere sulla loro pelle quali siano le condizioni climatiche a cui sono costretti i profughi da oltre trent’anni, con escursioni termiche che vanno da temperature minime che si aggirano intorno agli 0 gradi durante la notte e massime che possono sfondare i 60 gradi d’estate.
La permanenza degli atleti al campo, insieme ai profughi, permette di immergersi nella loro realtà e allo stesso tempo di scoprire cose per noi dimenticate, come il valore della parola: in una dimensione in cui il tempo non conta, ci si ritrova a parlare con queste persone, a conoscere la loro storia.
La Sahara Marathon è alla diciottesima edizione, ma i sahrawi attendono da più di quarant’anni che le Nazioni Unite e i governi che fanno parte del Consiglio di sicurezza (come Francia e Stati Uniti) smettano di porre veti bloccando ogni forma di soluzione. La battaglia del Fronte Polisario è la dimostrazione che, quando non ci sono interessi internazionali in gioco, i popoli vengono dimenticati, abbandonati a loro stessi o, peggio, lasciati nelle mani di governi ben poco inclini al rispetto dei diritti umani. Ma la richiesta dei sahrawi è sempre la stessa: lo svolgimento di un referendum che possa risolvere la questione una volta per tutte e chiudere così l’ultima fase della decolonizzazione africana.
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