Un tribunale di Washington blocca l’oleodotto Dakota access pipeline.
Dakota access pipeline: Trump sgombera gli oppositori, ma la protesta continua
Dopo l’ordine di sgombero di Donald Trump, chi si oppone al Dakota access pipeline si sta riorganizzando per la manifestazione del 10 marzo. E intanto in Italia…
Il 22 febbraio dieci nativi americani sioux della riserva di Standing Rock, in North Dakota, sono stati arrestati durante lo sgombero del campo Oceti Sakowin in seguito all’ordine esecutivo del presidente Donald Trump relativo alla ripresa dei lavori dell’oleodotto Dakota access pipeline. Durante lo sgombero al campo, che era arrivato a ospitare migliaia di attivisti da tutti gli Stati Uniti, c’è stata un’esplosione e un bambino di 7 anni e una ragazza di 17 anni sono finiti in ospedale a causa delle ustioni riportate.
L’ultimatum di Donald Trump
Il Dakota access pipeline è un oleodotto che servirebbe per trasportare il petrolio di bakken dal North Dakota all’Illinois, attraverso gli stati del South Dakota e dell’Iowa. Il costo stimato dell’opera è 3,7 miliardi di dollari oltre a un pesante impatto sull’ambiente, primo fra tutti il rischio di contaminazione delle acque della riserva sioux Standing Rock. Sono stati propri i nativi americani di questa regione i primi ad apporsi, spingendo tutto il mondo a interessarsi di questa remota zona al confine con il Canada. L’ex presidente Barack Obama e lo United States army corps of engineers (Usace), la sezione dell’esercito americano che si è occupata della progettazione dell’opera, stavano lavorando per cambiare il percorso dell’oleodotto, avallando le richieste dei nativi che non volevano passasse sotto il fiume Missouri. Ma Donald Trump, appena insediatosi, ha cancellato il piano e permesso la ripresa dei lavori.
Scaduto l’ultimatum, la maggior parte degli attivisti ha lasciato volontariamente il campo, circondato dalle forze dell’ordine in tenuta antisommossa, mentre altri non hanno voluto abbandonare il luogo della protesta continuando a opporre resistenza. E per questo sono finiti in manette.
La petizione contro le banche che lo finanziano
La società civile è molto impegnata. La rete europea Banktrack fa sapere che ben 700mila persone hanno firmato una petizione per chiedere agli istituti di credito coinvolti in questa vicenda di ritirare il loro sostegno finanziario all’opera. Centinaia di cittadini di tutto il mondo hanno chiuso i loro conti correnti presso tali banche, così da portare a un ritiro di fondi che Banktrack ha stimato intorno ai 55 milioni di euro.
Anche Greenpeace ha lanciato nei giorni scorsi una petizione online prendendosela in particolar modo con le banche italiane. “Mentre Abn Amro (banca olandese, nda) che finanzia una delle aziende coinvolte nel progetto ha dichiarato che ritirerà il suo prestito se l’oleodotto non avrà l’assenso delle popolazioni che abitano le aree interessate, banche come Ing o Intesa Sanpaolo in Italia non hanno ancora espresso una linea chiara, né preso impegni vincolanti”, ha dichiarato Andrea Boraschi, responsabile campagna Energia e Clima di Greenpeace Italia.
La risposta del gruppo bancario è contenuto in un comunicato ufficiale precedente al via libera definitivo di Trump: “Intesa San Paolo conferma il suo impegno a seguire da vicino e con la massima attenzione i risvolti sociali e ambientali legati al finanziamento del Dakota access pipeline, in particolare il rispetto dei diritti umani, in coerenza con i principi espressi nel suo codice etico e con gli standard internazionali in campo sociale e ambientale a cui aderisce”. Per questo Intesa Sanpaolo si è già “unita a un gruppo di istituzioni finanziarie che ha commissionato a un esperto indipendente specializzato in diritti umani un’analisi delle politiche e delle procedure adottate dai promotori del progetto in materia di sicurezza, diritti umani, coinvolgimento della comunità e patrimonio culturale”.
Intanto la protesta dei nativi negli Stati Uniti continua. I sioux hanno annunciato una marcia nella capitale Washington, davanti alla Casa Bianca, il 10 marzo.
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