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Emma Bonino. Per la convivenza ci vogliono fatti e politiche serie
Migranti e donne, convivenza e diritti umani. Emma Bonino fa il punto della situazione sui temi più sentiti del nostro tempo. Per chiedere iniziative serie e di lungo periodo.
Emma Bonino è una delle figure più importanti del radicalismo liberale italiano dell’età repubblicana. La sua carriera inizia verso la metà degli anni Settanta con la lotta per la legalizzazione dell’aborto in Italia. Dal 1979, quando diventa deputato del Parlamento europeo, si fa portatrice in prima persona di numerose battaglie referendarie, soprattutto sui temi dei diritti civili. Bonino è stata anche delegata per l’Italia alle Nazioni Unite per la moratoria sulla pena di morte e fondatrice dell’organizzazione internazionale Non c’è pace senza giustizia per l’abolizione delle mutilazioni genitali femminili. Negli ultimi anni ha ricoperto cariche istituzionali, dalla vicepresidenza del Senato nel 2008 a ministra degli Esteri per il governo Letta nel 2013. Nel 2015 è stata presidente onorario del progetto di Expo Milano 2015: WE-Women for Expo.
I migranti in arrivo dall’area euro-mediterranea portano con sé una cultura che assegna alle donne un ruolo e valori diversi dai nostri. Come si può conciliare il diritto e il dovere di accoglienza con la necessità di prevenire incidenti?
Non generalizzerei in questo modo. Ci sono rifugiati che provengono da paesi di cultura reazionaria, altri (in particolare quelli africani) dove la situazione non è così drammatica. Il vero problema è che bisognerebbe iniziare a discutere di cosa sia una politica di convivenza, che è invece un tabù. In questi mesi non ho visto alcun dibattito a livello governativo che affrontasse la questione di diritti e doveri dal punto di vista di entrambe le parti coinvolte, al contrario, si è discusso solo di muri, frontiere, fili spinati, respingimenti e di come ridurre il numero di migranti. Negli ultimi anni non sono però mancate le iniziative. Io stessa nel 2010 ho partecipato alla stesura del rapporto Vivere insieme in libertà e democrazia nel Ventunesimo secolo, per il Consiglio d’Europa, che comprendeva una raccolta di best practice in diverse parti del mondo e in cui si era cercato di far convivere i punti della Carta dei diritti fondamentali con le tradizioni locali. È ora di iniziare a discutere di politica di convivenza partendo dai fatti: il primo è evidentemente imparare a parlare la lingua, che permetta di condividere non solo uno stesso vocabolario, ma un sistema di leggi, diritti, doveri e divieti di tradizioni nefaste ormai proibite a livello internazionale, come le mutilazioni genitali femminili. Per insegnare la lingua ci vogliono scuole per adulti che offrano lezioni durante i weekend o alla sera, come avviene in altri paesi europei. Tutto questo è risaputo, ma di questa politica non si sente parlare.
In questa prospettiva, come si pone il problema dell’autodeterminazione delle donne migranti?
Molte donne già considerano proprio il diritto all’autodeterminazione. I siriani, per esempio, scappano da una dittatura di tipo “laico”, quindi le donne vivevano in un contesto dittatoriale e repressivo, ma laico dal punto di vista delle scelte personali. Simile a questa era la condizione in Iraq, prima della sua islamizzazione. Molto spesso non è un problema di leggi, quanto di cultura patriarcale che ha sempre discriminato le donne. L’Eritrea ne è un esempio e noi stessi lo siamo stati fino a qualche decina d’anni fa. Ovviamente, come si diceva, l’apprendimento della lingua non è solo la condivisione di un alfabeto, e non è unilaterale. Peraltro ritengo che un’attenzione particolare da parte nostra per le donne immigrate sia doverosa: sono loro che hanno maggiori esigenze d’integrazione, perché devono farsi carico dei rapporti istituzionali con la scuola, gli ospedali, il rinnovo del permesso di soggiorno, e così via.
Che cosa si può fare per prevenire forme di esasperazione come quelle, sempre più frequenti, di ragazzi e ragazze di seconda o terza generazione che diventano foreign fighters?
Innanzitutto c’è da rivedere tutta una politica praticata nei decenni scorsi che si è semplicemente rivelata sbagliata, come dimostra il caso del Belgio. Una politica che ha consentito (se non alimentato) la crescita di ghetti all’interno delle città. Molenbeek ne è un esempio perfetto: una sorta di enclave di 90mila persone, l’80 per cento delle quali musulmane, sostanzialmente impenetrabile dalle forze dell’ordine. Tollerare l’esistenza di luoghi consimili è stato uno dei modi di concepire la convivenza, ma questa politica va assolutamente rimessa in discussione. Nulla di tutto ciò è nuovo: è sufficiente ripensare a fenomeni storici come il caso di Little Italy a New York, una sorta di ghetto sottoposto alle leggi della mafia piuttosto che a quelle dello stato americano. Se solo fossimo capaci di riflettere sul passato scopriremmo una serie di errori, ma anche di pratiche positive dalle quali imparare.
We can’t treat eastern Europe like we treat the southern Mediterranean https://t.co/gSfudCCW8h
— Emma Bonino (@emmabonino) 30 maggio 2015
Per cambiare in maniera positiva, dobbiamo però iniziare ad accettare il concetto che l’Europa è destinata a integrare persone provenienti da altri Paesi e altre culture. Il nostro declino demografico è drammatico, mentre contemporaneamente nel sud del Mediterraneo si assiste a una crescita esponenziale: nel 1950 erano 70 milioni, nel 2014 sono arrivati a 430 milioni e le stime per il 2050 indicano 630 milioni di persone. Basta osservare una ripresa dall’alto: a separarci dall’Africa non c’è un oceano, come nel caso dell’America, ma un minuscolo lago. Se non accettiamo questo principio e ci manca la capacità di ragionare secondo una logica di medio-lungo periodo, continuando ad appaltare la nostra sicurezza alla Turchia e a occuparci solo di muri e fili spinati, credo semplicemente che saremo destinati a fallire.
I dati dimostrano che in Italia la busta paga delle donne è ancora inferiore del 10 per cento rispetto agli uomini. Quali politiche concrete si possono fare per promuovere una cultura che aiuti a comprendere che le donne rappresentano una risorsa allo sviluppo, anziché un ostacolo?
Questa situazione è dovuta più a un fatto culturale e di struttura sociale che ad altro. Dal punto di vista legislativo non esiste discriminazione, le differenze nei salari sono dovute a benefit di vario genere. Per legge, a uno stesso lavoro corrisponde un’identica retribuzione, però di fatto la situazione è differente. Le donne sono penalizzate da una politica complessiva che non le aiuta, limitandone le possibilità di fare carriera, non solo perché hanno stipendi inferiori, ma anche perché devono prendersi cura dei bambini (che spiega perché molte donne rinuncino a fare figli) e degli anziani. Manca una vera politica di sostegno: si dice ipocritamente che il welfare all’italiana è sulle spalle della famiglia, ma all’interno della famiglia ricade interamente sulle spalle delle donne. Da questo punto di vista è chiaro che le donne (con le dovute eccezioni) hanno molte altre incombenze oltre a quelle professionali, con la conseguenza che sono molto meno disposte a fare straordinari, a partecipare a seminari e stage di formazione, e così via. Non esiste una soluzione legislativa miracolosa: quello che manca è una politica di condivisione delle responsabilità, del tutto assente in Italia.
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