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Luca Saltalamacchia. La causa contro Eni in Nigeria è un precedente fondamentale nella difesa dei diritti umani
Per la prima volta in Italia, una multinazionale, Eni, è stata portata in tribunale nel paese di origine per violazioni dei diritti compiute all’estero. L’intervista all’avvocato che sta portando avanti la causa, Luca Saltalamacchia.
È stata la comunità di Ikebiri, nello stato di Bayelsa, sul delta del Niger, a citare in giudizio la compagnia petrolifera Eni e la sua controllata locale, Naoc (Nigerian Agip oil company) per l’inquinamento ambientale causato nel 2010 da uno sversamento di petrolio nei terreni e nelle acque di una delle innumerevoli diramazioni del fiume Niger che passa nei pressi dei loro villaggi.
Il procedimento legale è pendente dal 4 maggio con la notifica della citazione a Eni presso il tribunale di Milano eseguita da Luca Saltalamacchia, che rappresenta in questa causa gli abitanti di Ikebiri. La comunità lamenta la mancata bonifica dell’ambiente e del fiume, nonostante la compagnia abbia dichiarato di avere fatto il suo dovere. L’incidente, causato dalla rottura di un oleodotto che passava vicino ai loro villaggi, ha avuto pesanti ripercussioni sulla salute, sull’alimentazione e sull’economia della popolazione a causa dell’inquinamento che ha intaccato la biodiversità.
L’episodio
Sei giorni dopo l’inizio dello sversamento, i rappresentanti di Naoc e delle altre parti coinvolte, inclusa la comunità locale, hanno visitato il sito per accertare la situazione e la compagnia si è impegnata a bonificare l’area al più presto. A stretto giro, la fuoriuscita di greggio è stata interrotta ma la zona interessata è stata successivamente data alle fiamme aumentando l’inquinamento e i danni nell’area. Naoc sostiene di aver proceduto con le bonifiche e di avere i documenti che lo attestano, ma non li hanno mai mandati agli avvocati della controparte.
Citare in giudizio non significa vincere il processo, ma questa è già una vittoria per l’ambiente e per quelle popolazioni desiderose di giustizia. Così cerchiamo di approfondire questo caso con l’avvocato Luca Saltalamacchia che rappresenta la comunità di Ikebiri.
Com’è nato il processo contro Eni in Nigeria?
Questa campagna è nata grazie all’intervento di Friends of the Earth (Foe), una organizzazione non governativa che si batte per la difesa dell’ambiente e dei diritti umani attraverso campagne legali. L’accesso alla giustizia, infatti, è un problema grosso in queste situazioni e Foe interviene come facilitatore. Io in passato avevo già attaccato multinazionali italiane per disastri ambientali, in particolare in un caso che riguardava il finanziamento da parte di un istituto di credito italiano a una controversa diga nel Kurdistan turco. In quella circostanza la società si è dimostrata subito molto collaborativa e ha di fatto abbandonato l’operazione senza neanche arrivare in tribunale. In Nigeria Eni ha inquinato e non ha bonificato, né risarcito la comunità. Per questo Foe, con cui ero in contatto già dal 2010, si è rivolta a me, per i miei precedenti, e insieme abbiamo individuato nel caso di Ikebiri una situazione adeguata per procedere per vie legali.
Quale accusa avete rivolto a Eni?
Eni, attraverso la sua controllata Naoc, ha inquinato il territorio di Ikebiri e per legge avrebbe dovuto bonificarlo e risarcire le comunità interessate. In realtà noi riteniamo che non abbia adempiuto a nessuno dei due obblighi. Il suolo rimane ancora inquinato, come abbiamo dimostrato realizzando delle analisi indipendenti, e il fatto che Naoc dichiari di avere i certificati di bonifica è irrilevante, anche perché non ce li ha mai fatti avere. In ogni caso non basta un pezzo di carta a provare l’avvenuta bonifica quando l’evidenza accertata è ben diversa. A questo proposito è importante notare che a seguito di un’indagine in un caso simile sempre nel delta del Niger, il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep) ha dimostrato che questi certificati sono inaffidabili essendo stati rilasciati, in 10 casi su 15, per territori ancora contaminati. D’altra parte, l’indipendenza degli enti di governo e di controllo non è delle più solide: ad esempio durante un sopralluogo che abbiamo effettuato sul sito le autorità locali si sono presentate accompagnate dalla scorta e su mezzi di Naoc e il verbale è stato redatto su carta intestata della compagnia. Una commistione preoccupante.
Il suolo, quindi, è ancora inquinato?
La prima volta che ci siamo recati sul sito, nel 2013, alla semplice pressione dei piedi sul terreno si vedeva chiaramente la sostanza oleosa degli idrocarburi risalire in superficie. Ora il petrolio non è più visibile perché è stato assorbito dal suolo, ma i livelli di inquinamento sono ancora fuori norma e in un’area molto ampia. Inizialmente si stimava che l’area interessata fosse di circa 17 ettari ma i prelievi effettuati a 2 chilometri dal punto di sversamento hanno dimostrato che la quantità di idrocarburi anche in punti così distanti è di circa 100 mg/kg, mentre in prossimità dello sversamento si è rilevato un valore pari a 207 mg/kg. Il limite di legge sotto il quale un terreno si può considerare non inquinato è di 50 mg/kg.
È previsto un risarcimento dei danni per la popolazione locale?
Sebbene abbiano avuto luogo a suo tempo negoziazioni in tal senso tra la comunità e Naoc, un risarcimento adeguato non c’è mai stato. È proprio grazie alla fierezza e alla determinazione del re di Ikebiri e del consiglio degli anziani che è stato possibile portare avanti questa battaglia, perché non hanno accettato le offerte avanzate in segno di risarcimento per un valore di poche migliaia di euro. Se anche avessero aumentato la cifra, sarebbe mancata la parte fondamentale di bonifica, dalla quale la comunità non poteva prescindere. È un evento molto raro, perché di solito le comunità si accontentano di una piccola somma di denaro che però preclude ogni ulteriore possibilità di intervento.
BREAKING: Historic case brought against Italian big-oil #ENI for polluting Ikebiri community in Nigeria: https://t.co/CFiwyjj9uH pic.twitter.com/HxTqGl0sww
— Friends of the Earth (@foeeurope) 4 maggio 2017
Come dicevamo siete stati i primi in Italia a intraprendere questo percorso. Quali sono secondo lei i motivi?
Sì, questo crediamo abbia un grande valore. È incredibile che nessuno si sia mai cimentato in un’operazione simile nonostante la legge italiana sia in vigore dal 1995 (Legge 218/95) e anche quella europea consenta questo tipo di cause da diversi anni. Altri Paesi sono più avanti, ad esempio i Paesi Bassi, che hanno già portato Shell in tribunale per un caso simile. Innanzi tutto la legge italiana favorisce di gran lunga le compagnie e le grandi multinazionali rispetto ai diritti degli individui, quindi pensare di muovere un’azione legale contro queste potenze non è molto rassicurante. Inoltre, portare davanti al giudice cittadini stranieri non residenti in Italia è complicato anche dal punto di vista economico perché questi non possono godere del patrocinio e della tutela legale gratuiti. Anche il fatto che in Italia non sia ammessa la class action per questo tipo di violazioni crea molte difficoltà ai legali, sebbene nel nostro caso specifico questo non fosse rilevante.
E poi c’è sempre la questione che nessuno vuole essere il primo. Se nessuno l’ha fatto fino ad ora ci sarà un motivo. Tutto è più difficile, non ci sono casi simili a cui rifarsi, manca la giurisprudenza, l’interpretazione della legge deve essere ancora affinata. Ma noi abbiamo deciso di provarci ugualmente. Quando ti imbarchi in queste imprese vuoi che sia tutto perfetto ma non è possibile, manca sempre qualcosa. La preparazione è durata cinque anni ed è stata complicata. Certo anche per la controparte sarà difficile perché neanche per loro ci sono precedenti.
Perché è importante portare le multinazionali davanti ai tribunali dei Paesi dove hanno la sede principale?
Intanto ci si aspetta che un giudice europeo sia imparziale e che le sentenze siano applicate in modo più puntuale. E poi la pressione dell’opinione pubblica può fare molto per tenere alta l’attenzione e far sì che le aziende e i governi rendano conto del proprio operato. Fino ad ora le società italiane all’estero hanno lavorato nella più completa libertà e impunità. Nonostante in questo caso le leggi applicate siano quelle nigeriane, le procedure processuali saranno quelle italiane, e anche quelle possono indirizzare il corso della giustizia. Molto spesso in casi giudicati da tribunali locali, anche quando sono state comminate delle pene, queste non sono state scontate e le sentenze non sono state implementate. I motivi sono diversi e le responsabilità giacciono a diversi livelli. In ogni caso i governi ci tengono a mantenere buoni rapporti con le multinazionali che portano investimenti e soldi nelle loro casse. Purtroppo, però, la popolazione locale non trae beneficio da queste infrastrutture, e ad esempio a Ikebiri nessuno dei circa 500 abitanti lavora nel settore.
Quali sono le implicazioni positive di questo primo passo?
Se la nostra causa avrà un esito positivo, costituirebbe un precedente importante in ipotesi di altre violazioni dei diritti umani, di inquinamento, per casi di land grabbing o sfruttamento del lavoro. Bisogna però fare attenzione perché, se nel nostro caso riteniamo che Eni abbia violato la legge nigeriana, ci sono situazioni in cui le aziende operano nella legalità, ma i diritti delle popolazioni locali sono comunque violati a causa di leggi nazionali che vanno contro quelle internazionali o che consentono alle multinazionali diversi soprusi.
D’altra parte sono sempre più frequenti le raccomandazioni emesse da istituzioni internazionali, come Unione europea e Nazioni Unite, che spingono a favore di una maggior responsabilità delle aziende nel rispetto dei diritti umani. Questa giurisprudenza dovrebbe indirizzare anche i comportamenti in tal senso.
Se noi stiamo cercando a fatica di andare in questa direzione, gli Stati Uniti erano già molto avanti, ma hanno fatto recentemente un’inversione di rotta: l’Alien tort claim act garantiva infatti un processo in un tribunale americano qualunque fosse la nazionalità dei convenuti. Un baluardo di giustizia universale, che però purtroppo è stato abbattuto tre anni fa.
Come dovrebbe essere migliorata la legge italiana?
Innanzi tutto, mi auguro che sia reso più semplice l’accesso alla giustizia prevedendo la possibilità per le comunità ed i cittadini stranieri di godere del gratuito patrocinio e delle class action. Poi sarebbe opportuno prevedere la responsabilità automatica delle imprese capogruppo nelle ipotesi di violazioni di diritti umani fondamentali o di devastazioni ambientali commesse dalle società controllate.
E adesso?
La strada è ancora lunga. Non vogliamo fare un processo mediatico ma è importante che l’attenzione rimanga alta per far capire che l’argomento è di rilievo. Inoltre, proprio perché è il primo del suo genere, questo processo incontrerà sicuramente degli ostacoli, ma non per questo deve essere abbandonato, anzi. Deve essere piuttosto sostenuto perché se anche è ancora debole, si rafforzerà. È un passo avanti verso la legalità, l’applicazione di una legge mai applicata.
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