Nella regione del Sahel, sconvolta da conflitti inter comunitari e dai gruppi jihadisti, 29 milioni di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria.
Le ferite dell’anima bruciano sulla pelle. La storia di Fatima
Quella di Fatima è solo una delle tante storie di ragazze minorenni vittime di tratta. Storie di vulnerabilità, violenza e sofferenza che mettono in luce l’esigenza di tutela e interventi mirati. L’editoriale di Terre des Hommes Italia.
Fatima è una ragazzina di origine afgana di 16 anni che ha vissuto in Iran da quando ne aveva 4. All’età di 13 anni un uomo di 32 anni più grande l’ha portata a casa sua senza il consenso della famiglia, per fare di lei la sua quarta moglie. Due anni e mezzo fa, con l’aiuto della madre e del fratello, Fatima è riuscita a scappare e ha deciso di lasciare l’Iran, nonostante tutti i pericoli.
La storia di Fatima, una delle tante
Non avendo abbastanza denaro per arrivare in Europa si è fermata per due anni in Turchia, dove ha lavorato senza alcun contratto in vari posti: industrie, parrucchieri, supermercati, magazzini. A un certo punto ha incontrato degli uomini che le promettevano di farla arrivare in Svezia, dove vivono le sue zie, senza dover pagare nulla. Si è fatta convincere e ha seguito i cinque trafficanti, uno dei quali poi l’ha violentata. Arrivati in Grecia, è stata consegnata a un altro uomo e con lui si è registrata alle autorità greche come se fossero una coppia sposata di profughi. Trasferiti in un campo profughi ad Atene, dopo qualche giorno Fatima ha detto agli operatori che l’uomo che stava con lei non era suo marito, senza però aggiungere il resto.
A questo punto, Fatima è stata assegnata a un centro per minori non accompagnati di Atene, ma qui non stava bene e voleva andarsene. Dopo aver conosciuto una famiglia afghana che stava andando a Idomeni, ha deciso di andare via con loro. A Idomeni è rimasta 3 mesi, poi ha chiesto aiuto agli operatori di una ong, senza però raccontare tutta la sua storia. Quando è arrivata al centro di Arsis, un’organizzazione partner di Terre des Hommes in Grecia, era devastata. Aveva le mani e le gambe piene di ferite che si autoprocurava. Solo due mesi dopo del suo ingresso nel centro ha trovato il coraggio di raccontare quante volte era stata violentata e per quanti giorni è stata costretta ad avere rapporti sessuali con gli uomini in una tenda in Turchia. Non sappiamo ancora come sia riuscita a fuggire. Adesso ha richiesto il ricongiungimento familiare, parla il Greco e sta imparando l’inglese, non manifesta più atti di autolesionismo o pensieri suicidi.
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Le storie di violenza delle minorenni vittime di tratta
Su un’altra rotta, quella che dall’Africa arriva all’Italia, troviamo altre ragazze vittime di tratta, incontrate e assistite da Terre des Hommes nei centri di prima assistenza in Sicilia. Provengono da Nigeria, Gambia, Mali, Senegal, Eritrea, Somalia, dopo un lungo viaggio fatto anche di violenze e abusi. Proprio per questo, dopo lo sbarco queste ragazze necessitano di un’attenzione e di un supporto psicologico specifico, data la loro condizione di particolare vulnerabilità sia nei loro paesi d’origine che durante il percorso migratorio e all’arrivo in Italia. I nostri operatori cercano di valutare il grado di vulnerabilità e forniscono un primo intervento di supporto psicologico e sociale, segnalando le minori all’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) qualora emergano storie di sfruttamento nella tratta.
Le storie che queste ragazze narrano risultano lacunose, in particolar modo per le minori nigeriane, e sono accomunate da elementi ricorrenti: la condizione di fragilità del tessuto economico, sociale e familiare nel Paese d’origine, la decisione – a volte forzata – di interrompere gli studi, la perdita di un genitore o di entrambi e, dunque, l’essere affidate a parenti della famiglia allargata con frequenti episodi di reiterate violenze fisiche e sessuali intrafamiliari ed extrafamiliari subite nel paese d’origine.
Anime ferite, ferite sul corpo
A queste condizioni di fragilità e violenza si aggiungono quelle subite nel percorso migratorio, nel corso del quale sono esposte a violenze fisiche e sessuali nei campi di prigionia in Libia gestiti dai trafficanti (Beni Walid, Sabha, Sabratha) e allo sfruttamento sessuale nelle cosiddette connection house. Spesso ne conseguono gravidanze indesiderate e l’esperienza di essere costrette a interrompere la gravidanza, con vissuti di colpa e di sofferenza psicologica che permangono nel tempo.
Le loro anime sono indelebilmente ferite da tutta questa violenza. La sofferenza parla attraverso il linguaggio dei loro corpi: occhi spenti, sensazioni di impurità, atteggiamenti di sfida e provocatori nei confronti degli uomini, dolori al corpo, tristezza. Emergono sintomi post-traumatici, quali dolori generalizzati nel corpo, cefalea, disorientamento spazio-temporale, vissuti di tristezza e apatia, di irascibilità, insonnia, inappetenza. Si evidenziano sentimenti di vergogna e di colpa e un senso di frammentazione identitaria che connota il loro modo di stare al mondo, così come disturbi d’ansia e depressivi. I loro corpi parlano, laddove le parole non permettono di esprimere l’assurdità di una violenza disumana e perpetrata da esseri umani.
Marianna Cento, psicologa di Terre des Hommes a Ragusa, racconta il comportamento di una minore subsahariana che sosteneva di non aver subito violenze durante il viaggio, mentre cercava invano di pulire in modo ossessivo la propria pelle, strofinandola con una forza eccessiva. Sosteneva che la sua pelle “era sporca, diversa da prima”. Un sentimento di colpa e di impurità, di perdita del senso di sé, che necessita di uno spazio di elaborazione psicologica per essere condiviso e integrato, per consentire un recupero della propria coesione identitaria come persona e donna degna di valore.
La condizione di vulnerabilità delle minorenni mette in luce la necessità di una protezione maggiore rispetto ai loro coetanei maschi e di interventi integrati e tempestivi che operino in tale direzione, mediante il coordinamento di tutti gli attori coinvolti. A partire da loro, che non devono essere solo considerate vittime, ma anche come persone attive, che emigrano spesso con la volontà di proseguire gli studi, di trovare un lavoro in Italia per inviare denaro alla famiglia d’origine, di ricongiungersi a un parente. Insomma, ragazze che hanno una progettualità migratoria definita e risorse specifiche.
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