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Foodora: la sottile linea fucsia fra lavoro e sfruttamento
Prima a Torino, poi a Milano, la protesta dei fattorini di Foodora fa emergere le tensioni provocate in Italia e in Europa dall’avvento della gig economy.
Tutto è cominciato un sabato pomeriggio di inizio ottobre quando un drappello di fattorini della filiale torinese della multinazionale delle consegne ha sfilato per il centro del capoluogo piemontese lanciando lo slogan #foodoraetlabora. Chiedevano contratti meno precari, compensi più elevati e un contributo per la manutenzione degli strumenti di lavoro, la loro bici e lo smartphone. A oggi però, quando la protesta ha contagiato anche i fattorini di Milano, sede italiana di Foodora, fra azienda e lavoratori il dialogo sembra interrotto.
Foodora : lavoretti o sfruttamento?
A un anno dallo sbarco in Italia della società tedesca – creata a Monaco nel 2014 e ora proprietà del gruppo Rocket Internet – Foodora ha deciso, per le nuove assunzioni, di eliminare unilateralmente la remunerazione fissa basata sul numero di ore lavorate per mantenere esclusivamente una remunerazione a consegna di 2,70 euro. Inaccettabile per i fattorini torinesi che hanno chiesto, con l’appoggio del sindacato, di passare a un part-time orizzontale di minimo 20 ore remunerato 7,50 euro l’ora più 1 euro a consegna. Richiesta respinta dai vertici aziendali che non intendono ritornare a una remunerazione fissa e acconsentirebbero tutt’al più a far lievitare il compenso a consegna a 3,70 euro. Motivo: come ha spiegato ai giornali Gianluca Cocco, giovane co-direttore di Foodora Italia, l’azienda sarebbe “un’opportunità per chi ama andare in bici, guadagnando anche un piccolo stipendio”. Non certo un vero lavoro.
Cosa permette la legge italiana
La risposta di Foodora è giudicata irricevibile dai fattorini e non è piaciuta nemmeno ai sindacati e al ministro del Lavoro Giuliano Poletti che la settimana scorsa ha avviato un’ispezione per accertare eventuali violazioni di legge da parte dell’azienda.Alcuni giuristi, però, hanno fatto notare che Foodora si starebbe avvalendo di un vuoto creato dal Jobs Act che ha abolito quel punto della riforma Fornero che stabiliva che il compenso dei co.co.co a progetto non potesse essere inferiore alle retribuzioni minime previste dai contratti collettivi nazionali del settore. Certo è che la strada intrapresa da Foodora non è l’unica possibile. Sin dai primi giorni della protesta infatti, Giuseppe Garesio, vicepresidente nazionale di Assolavoro, l’associazione che riunisce le agenzie interinali, aveva proposto di ricorrere al monte ore garantito (Mog):
Una tipologia di contratto di somministrazione che prevede un minimo di ore garantite da distribuire nella settimana, a seconda dei picchi di lavoro previsti. Una sorta di “evoluzione” del lavoro a chiamata che però garantisce al lavoratore la retribuzione, oltre naturalmente agli oneri previdenziali
Un fantasma si aggira per l’Europa: la gig economy
La vicenda di Foodora solleva un problema che va ben al di là delle frontiere del nostro paese e chiama in causa il diffondersi di quella che viene definita gig economy o, in italiano, “economia dei lavoretti”. Prestazioni di lavoro occasionali, fugaci, ripetute nel tempo e pagate a prestazione. Queste pratiche esistevano già in passato ma l’apparizione di piattaforme e algoritmi capaci di gestire simultaneamente centinaia di lavoratori occasionali ha spinto all’estremo questa logica. Oggi Foodora è presente in Europa in otto paesi dove impiega qualcosa come 4.500 fattorini. La protesta dei fattorini torinesi arriva dopo quelle di londinesi e parigini, alle dipendenze di altre note piattaforme come Deliveroo e MakeEatEasy. Non sorprende dunque che il ministro Poletti abbia allertato i suoi colleghi europei affinché si trovino soluzioni comuni per tutelare i diritti dei lavoratori della gig economy.
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