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Turchia, Siria, Egitto. Le storie di alcuni dei giornalisti zittiti, uccisi, dimenticati che pagano con la vita pur di difendere la libertà di stampa nei loro paesi.
E’ un triste conteggio quello fatto da Reporters sans frontières sui giornalisti uccisi o arrestati nel mondo. 47 professionisti, 8 civili e altrettanti assistenti ammazzati dal 1° gennaio di quest’anno. Di questo si è parlato nell’incontro sulla libertà di stampa organizzato dall’Associazione lombarda dei giornalisti, dedicato in parlare a tre paesi del Medio Oriente.
La Turchia è attualmente la più grande prigione al mondo per i giornalisti. Ai primi di ottobre è giunta la notizia che è stata chiusa l’ennesima emittente curda, circa 2.500 giornalisti hanno perso il lavoro dopo il tentato colpo di Stato del 15 luglio (dato Ifj). Reporters sans frontières riporta di almeno 110 giornalisti in carcere, di cui 70 arrestati dopo il golpe. Più 150 denunciati a piede libero. Basta l’ipotesi degli inquirenti di affiliazione a un’organizzazione fuori legge o di insulto al presidente della repubblica per finire in carcere. Anche alcuni vignettisti sono stati perseguiti.
Del paese parla Shady Hamadi, scrittore italo siriano, che ricorda diversi casi di giornalisti vittime per il loro lavoro. Nonché il problema che molti di coloro che si occupano di questi paesi nei media italiani non conoscono la lingua araba, essendo così tagliati fuori da molte notizie di prima mano. In Siria sono stati 67 i giornalisti professionisti uccisi (più 131 citizen journalist, ovvero giornalisti non professionisti, come i blogger) dall’inizio della rivolta contro Assad nel 2011. Il conto sale a 102 vittime dal 1992 ad oggi. A loro si aggiungono cinque assistenti (come i cameraman). Tutto questo è solo l’ultimo tragico capitolo di una storia di repressione e censura, che ha preso il via oltre cinquant’anni fa, con la presa del potere di Hafiz al-Assad, padre dell’attuale presidente Bashar.
L’Egitto risulta essere al 159esimo posto della classifica mondiale per la libertà di stampa. E in questo le vicissitudini politiche che ha vissuto il paese, passato in pochi anni dal lungo regime di Hosni Mubarak al governo dei Fratelli musulmani, fino alla presa del potere del generale Abd al-Fattah al-Sisi, non hanno migliorato la situazione, al contrario.
Tanto per fare un esempio, da agosto 2015 per legge, in caso di attentati terroristici i giornalisti devono riportare solo i comunicati ufficiali delle autorità. Niente informazioni non approvate, tantomeno ipotesi alternative. Oppure esiste una legge per cui volesse tenere una manifestazione di protesta è tenuto a comunicare in anticipo le generalità degli organizzatori alla polizia.
In questo quadro di non rispetto della libertà di stampa e dei diritti umani (basti pensare al caso di Giulio Regeni) stride come l’Italia abbia con l’Egitto un accordo di cooperazione militare firmato il 20 dicembre 2014 dalla ministra della Difesa, Roberta Pinotti.
Giovanni Piazzese è un giornalista che ha lavorato in Egitto dall’ottobre del 2011, ai tempi della sanguinosa repressione di Mubarak. Racconta che allora, nonostante i problemi evidenti, si respirava aria di libertà; lui ad esempio poteva girare per manifestazioni di protesta con la macchina fotografica appesa al collo. Ora è impensabile farlo senza il rischio di essere fermati dalla polizia, che è di fatto impunita qualsiasi cosa faccia.
Oltre al giovane ricercatore italiano, rapito, torturato e ucciso a fine gennaio 2016, Piazzese ricorda alcuni altri casi. Come quello di Shaimaa Al-Sabbagh, un’attivista del partito egiziano Alleanza popolare socialista, uccisa con proiettili sparati alle spalle mentre prendeva parte ad una manifestazione.
C’è poi il caso di Ahmed Abu Daraa, giornalista che ha scritto delle operazioni militari avvenute nella penisola del Sinai. Arrestato. O quello di Mohamed El-Gendy, torturato dalla polizia. O di Mayada Ashraf, uccisa. Tutti giornalisti egiziani, quindi se ne è parlato poco in Europa. Maggior attenzione ha avuto il caso dei tre giornalisti di Al Jazeera arrestati il 29 dicembre 2013 e rimasti in carcere fino al 2015.
Lungo e articolato è stato l’intervento di Murat Cinar, giornalista turco, di Istanbul. In sintesi estrema ha raccontato di come nei giganteschi lavori di costruzione e gestione del terzo aeroporto di Istanbul sia coinvolto un gruppo imprenditoriale che è anche proprietario di quattro giornali e un canale tv. I proprietari del gruppo hanno anche incarichi e rapporti di parentela all’interno del governo turco. Lo stesso gruppo è implicato nella costruzione della caserma nell’area del parco Gezi di Istanbul, da cui scaturì una lunga e nota protesta dei cittadini, repressa nel sangue. Murat Cinar ha portato esempi di come su questa vicenda il quotidiano turco Sabah abbia inventato notizie fasulle per screditare i manifestanti.
È stato poi ricordato il caso di Can Dundar e Erdem Gul condannati per aver rivelato l’esistenza di un traffico di armi organizzato dai servizi segreti di Ankara. Ordigni e munizioni che venivano raccolti e spediti in Siria, per aiutare i ribelli anti Assad (ma che passavano in zone pericolosamente infiltrate dall’Isis).
Riferimenti interessanti poi al terribile attentato di Ankara del 10 ottobre 2015, attribuito all’Isis anche se mai rivendicato. Alcuni giornalisti turchi hanno trovato un collegamento con la precedente strage di Diyarbakir, i cui autori sarebbero stati in pratica “lasciati agire” dalla polizia, che aveva gli elementi per poterli fermare. Ebbene, ad aprile è stata aperta un’inchiesta su giornali che hanno rivelato tutto questo, con l’accusa di rivelazione di segreto di Stato.
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