Oltre 2.500 miliardi di euro: sono i soldi che le grandi banche hanno iniettato nel settore delle fonti fossili dalla firma dell’Accordo di Parigi al 2019.
Quali sono le banche che finanziano l’inquinamento
Un anno fa 195 paesi si sono riuniti a Parigi, in Francia, per sottoscrivere un accordo con l’obiettivo di contenere i cambiamenti climatici al di sotto di 1,5 gradi centigradi rispetto ai livelli pre-industriali. Durante la Cop 21 l’invito ad assumersi questo impegno non è stato rivolto solo ai cittadini e ai governi ma anche al settore
Un anno fa 195 paesi si sono riuniti a Parigi, in Francia, per sottoscrivere un accordo con l’obiettivo di contenere i cambiamenti climatici al di sotto di 1,5 gradi centigradi rispetto ai livelli pre-industriali. Durante la Cop 21 l’invito ad assumersi questo impegno non è stato rivolto solo ai cittadini e ai governi ma anche al settore finanziario il quale, continuando a sostenere l’industria dei combustibili fossili, sostiene i settori più distruttivi per l’ambiente.
Chi finanzia l’inquinamento
Nell’industria delle finanza, il termine “short-selling” indica una transazione attraverso la quale un investitore fa profitto quando l’attività sulla quale ha investito diminuisce di valore. In questo senso si può dire che le banche stanno conducendo un’operazione simile sul clima: il rapporto Shorting the climate, redatto dalle ong Rainforest action network e BankTrack (di cui fa parte anche la ong italiana Re:Common) si è concentrato sull’attività di 25 grossi istituti bancari che tra il 2013 e il 2015 hanno erogato circa 784 miliardi di dollari in attività quali l’estrazione di petrolio nell’Artico (il cui istituto di riferimento è JPMorgan Chase) e in aree “ultra-deep offshore”, in miniere di carbone (Deutsche Bank), in impianti elettrici a carbone (Citigroup) e in esportazione di gas naturale liquefatto (altro settore guidato da JPMorgan). “Si tratta di investimenti fruttuosi per il settore finanziario fino a quando continueremo a bruciare combustibili fossili” ha detto Amanda Starbuck, direttore del programma clima ed energia di Rainforest Action Network, associazione di San Francisco tra gli autori del rapporto.
Il caso italiano
JPMorgan Chase, Bank of America, Citigroup, Deutsche Bank, Morgan Stanley, Royal Bank of Canada and Bnp Paribas sono le “top fossil fuel banks” come le definisce il rapporto. A distanza, ma comunque presente nel dossier, c’è anche un istituto italiano: si tratta di Unicredit che ha investito, nel biennio preso in esame, più di 6,5 miliardi di euro in attività legate ai combustibili fossili (il 50% solo nel funzionamento di centrali a carbone). Ad esempio Unicredit ha tenuto a galla il fallimentare progetto delle due centrali a carbone in Polonia Polska Grupa Energetyczne e la Zespół Elektrowni Patnów-Adamów-Konin: la prima ha registrato da sola 680 milioni di euro di perdite nel 2015.
Ma la domanda di carbone è in calo
L’esempio della Polonia serve a dimostrare quanto la domanda di carbone sia in netto calo e quanto abbia poco senso investire in questo settore: lo ammette – come riporta il dossier – lo stesso ‘top banker’ dell’istituto Ing coinvolto nell’operazione di salvataggio della Polska Grupa oltre che un report di Barclays che prevede come entro il 2030 ci sia poco da investire nel settore.
E nonostante diversi istituti, tra cui Bnp, abbiano accolto con favore le indicazioni della Cop 21 inserendo tra i criteri di finanziabilità anche il rispetto per l’ambiente (e iniettando risorse nel comparto rinnovabile oltre a dare per concluse esperienze di miniere a cielo aperto in Australia), in generale si fatica ad abbandonare il carbone e continuano a nascere progetti di nuovi impianti. Che, a causa della concorrenza del gas, della stagnazione dell’economia cinese (il più grande produttore di carbone al mondo) ma anche della crescente sensibilità a evitare produzioni di carbonio, saranno destinati a fallire.
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