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I potenti spostano capitali da un capo all’altro della Terra, aprendo una babele di società offshore per sfruttare regimi in cui la tassazione è quasi inesistente. E a farne le spese è sempre chi non si può difendere. È quello che accade in 44 stati africani, in cui c’è chi trae profitti da profitti da
I potenti spostano capitali da un capo all’altro della Terra, aprendo una babele di società offshore per sfruttare regimi in cui la tassazione è quasi inesistente. E a farne le spese è sempre chi non si può difendere. È quello che accade in 44 stati africani, in cui c’è chi trae profitti da profitti da petrolio, gas, e metalli preziosi e li dirotta immediatamente a 1.400 società situate nei paradisi fiscali. È questo, riassunto in poche righe, il fulcro di Panamafrica, il nuovo capitolo dell’inchiesta globale sui Panama Papers. Lo rivela il network Icij (Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi), di cui fa parte il settimanale l’Espresso in esclusiva per l’Italia. Storie che risultano ancora più sconcertanti se si pensa al fatto che, mentre pochi ricchi si spartiscono denaro e potere, la popolazione continua a vivere nella miseria, depredata dalle proprie risorse. Si stima infatti che ogni anno il continente africano veda volatilizzarsi circa 50 miliardi di dollari a causa dei flussi finanziari illeciti.
Una mole di dati pari a circa 1.500 volte quella di Wikileaks. Queste le dimensioni di Panama Papers, una fuga di notizie colossale che lo scorso 3 aprile è stata annunciata in contemporanea in tutto il mondo. Una rete globale di giornalisti investigativi ha preso in analisi oltre 11 milioni di documenti trafugati dallo studio legale panamense Massack Fonseca, che ha creato o amministrato oltre 214mila società offshore. Tra i nomi illustri trovati nei file, ce ne sono anche di italiani: dall’imprenditore Luca Cordero di Montezemolo alla conduttrice televisiva Barbara D’Urso, passando per il dirigente sportivo Adriano Galliani e l’imprenditrice Emanuela Barilla. L’elenco completo è sul sito del settimanale l’Espresso. Il filone emerso oggi si incentra sull’Africa, terra di conquista per affaristi spregiudicati.
Ci sono anche i pubblici ministeri (pm) italiani tra chi indaga sulle società al centro dei Panama Papers. Nello specifico, sui 198 milioni di euro di tangenti di cui Farid Bedjaoui discuteva con i rappresentanti del governo algerino e i manager di Saipem, nelle lussuose stanze dell’hotel Bulgari di Milano. Mazzette nascoste grazie a un dedalo di 17 società offshore, 12 delle quali sono riconducibili proprio allo studio Fonseca. Grazie a quelle tangenti, secondo i pm, Saipem sarebbe riuscita ad aggiudicarsi i contratti per la costruzione di oleodotti e gasdotti in Africa settentrionale. Saipem fa sapere di aver deciso di collaborare con l’autorità giudiziaria. Nel frattempo, una sua consociata è stata condannata in Algeria e Bedajaoui è stato incriminato dalle autorità italiane, che ritengono che abbia gonfiato i contratti per intascarsene una quota.
Chi guarda le vetrine di Tiffany, a Milano o New York, forse non immagina che molti dei diamanti arrivino dalla Sierra Leone. Per la precisione dalla città di Koidu, dove ha sede la Koidu Limited, uno dei clienti di spicco dello studio legale Fonseca, protagonista dei Panama Papers. Ripercorrendo la girandola delle offshore si arriva al miliardario israeliano Ben Steinmetz, insieme alla sua famiglia. Sempre a Steinmetz fa capo la BSG Resources, oggetto di un’indagine per presunte tangenti in Guinea.
Koidu Limited afferma di aver sempre investito per il benessere del territorio. A sentire la comunità locale, sembra che le cose vadano diversamente: dopo le sanguinose proteste del 2007 e del 2012, nel 2015 la città di Koidu ha trascinato l’azienda in tribunale, accusandola di non aver pagato alcune tasse locali. Pochi mesi dopo il sindaco Saa Emmerson Lamina, da sempre schierato contro la Koidu Limited, è stato sospeso dall’incarico, con una mossa molto contestata.
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