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Referendum costituzionale, le ragioni del sì e le ragioni del no
Tutte le ragioni del sì e del no, verso il referendum costituzionale del 4 dicembre.
Sì, no, forse. A due mesi quasi esatti dalla data fissata per il voto, quella del 4 dicembre, l’esito del referendum sulle riforme costituzionali appare ancora incertissimo. E rischia peraltro di essere orientato più da un giudizio complessivo sull’operato e la figura del premier Matteo Renzi, che si è molto esposto sul tema, che non sul contenuto della riforma in sé. Oggi l’Italia sembra divisa (non c’è quorum, andare a votare sarà fondamentale) tra comitati per il sì e comitati per il no: ma quali sono le ragioni degli uni e quali quelle degli altri?
Le ragioni del sì
L’urgenza di una riforma
L’Italia aspetta da decenni una vera riforma della seconda parte della Costituzione, ha spesso ribadito il governo Renzi, e tutto sono più o meno d’accordo: è almeno dal 1997, con la bicamerale di Massimo D’Alema, e poi durante i governi Berlusconi che ci si prova senza grandi successi, a parte la riforma in senso federalista del 2001. E se la riforma è stata approvata in Parlamento senza i due terzi dei voti richiesti per leggi di revisione costituzionale, quindi senza una grande condivisione, Renzi e compagni controbattono che la riforma attuale è piuttosto simile a quella voluta da Berlusconi nel 2006 e che Forza Italia, inizialmente favorevole, si è in seguito sfilata per motivi prettamente politici.
La fine del bicameralismo perfetto
Il punto principale della riforma è l’abolizione del bicameralismo perfetto. “Finalmente l’Italia cesserà di essere l’unico paese europeo in cui il Parlamento è composto da due camere eguali, con gli stessi poteri e praticamente la stessa composizione. Il superamento del cosiddetto bicameralismo paritario servirà per ridurre il costo degli apparati politici e per rendere l’attività del Parlamento più rapida ed efficace” dice il comitato per il sì.
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La fine del bicameralismo, spiegano i fautori del sì, porterà a tempi più rapidi nell’approvazione delle leggi, che non dovranno più fare la spola svariate volte tra Camera e Senato. “Tranne che per alcune limitate materie, di norma la Camera approverà le leggi e il Senato avrà al massimo 40 giorni per discutere e proporre modifiche, su cui poi la Camera esprimerà la decisione finale”, promettono i referendari.
Ridurre i numeri e i costi della politica
La riforma Boschi si propone si ridurre il numero dei parlamentari, perché i senatori passeranno da 315 a 95 (più 5 di nomina del Presidente della Repubblica) e non percepiranno indennità. Il Cnel verrà abolito, e con esso i suoi 65 membri. I consiglieri regionali non potranno percepire un’indennità più alta di quella del sindaco del capoluogo di regione e i gruppi regionali non avranno più il finanziamento pubblico, le province saranno eliminate dalla Costituzione.
La partecipazione dei cittadini
La riforma del resto introduce i referendum propositivi e d’indirizzo, finora non previsti dalla Costituzione, un’arma in più per i cittadini, e in alcuni casi sparisce anche il quorum del 50 percento per quelli abrogativi. Un numero di firme maggiori per i referendum propositivi si rende necessario, per gli autori della riforma, per non abusare del nuovo istituto, visto che la Camera dovrà deliberare obbligatoriamente su tutte le proposte. Senza contare che la quota di 50mila era stata tarata dai costituenti su una popolazione di 45milioni di persone nel 1948, aumentate oggi a 60 milioni.
Il rapporto Stato-regioni
Chi voterà sì è convinto che la riforma del Titolo V chiarirà e semplificherà il rapporto tra Stato e Regioni: con l’eliminazione delle cosiddette “competenze concorrenti”, ogni livello di governo avrà le proprie funzioni legislative e si eviterà finalmente la confusione e la conflittualità tra Stato e Regioni che ha ingolfato negli scorsi 15 anni il lavoro della Corte Costituzionale, chiamata a giudicare su numerosi conflitti di attribuzione.
I poteri del premier
La scarsa governabilità è uno dei problemi atavici della politica italiana: in 68 anni di repubblica, si sono susseguiti ben 63 governi, quasi uno all’anno. Una maggiore governabilità, introdotta in parte perché il governo sarà legato dal vincolo di fiducia solamente con una delle due attuali camere, ma soprattutto perché alla riforma è attualmente collegata una nuova legge elettorale, l’Italicum, tesa a garantire la vittoria chiara di un solo partito, è vista dunque da chi ha pensato la riforma come un elemento fondamentale su cui fondare le nuove regole.
Le ragioni del no
Una riforma delegittimata
Va bene la necessità di metter mano alla Carta, ma questa legislatura, ribattono 56 noti costituzionalisti nel loro ‘manifesto per il no’, era la meno indicata a farlo: un Parlamento eletto con una legge dichiarata incostituzionale quale il cosiddetto Porcellum, spiegano gli esperti, non avrebbe la legittimità di modificare la Costituzione. Senza contare che, come detto, la riforma non ha certo goduto di ampi consensi.
La fine del bicameralismo perfetto
L’intento è giusto, ma realizzato con modalità sbagliate, secondo i sostenitori del No: invece di dare vita ad una seconda Camera che sia reale espressione delle istituzioni regionali, dicono i costituzionalisti del No, si è configurato un Senato estremamente indebolito, senza poteri effettivi nell’approvazione di molte delle leggi più rilevanti per l’assetto regionalistico, né funzioni che ne facciano un valido strumento di concertazione fra Stato e Regioni. Inoltre, complica di molto l’esistenza di molti diversi tipi di interventi legislativi (su alcune leggi deciderà solo la Camera, su altre anche il Senato, su alcune legifererà la Camera ma il Senato potrà proporre emendamenti, su alcune leggi gli emendamenti del Senato potranno essere approvati a maggioranza semplice, su altre a maggioranza assoluta).
Il parlamento non è lento
In effetti, una delle critiche mosse più spesso al Parlamento italiano è quello dei ritardi accumulati nel legiferare. Anche se i sostenitori del No hanno scovato proprio in questi giorni una statistica (fonte: la Camera dei Deputati) secondo cui l’Italia è comunque il secondo paese europeo per numero di leggi approvate in un anno, dopo la Germania.
Il risparmio non è tutto
Conti alla mano, secondo i contrari, la razionalizzazione ridurrà i costi della politica circa del 20 percento, non di più, anche perché tutti i dipendenti provinciali non verranno lasciati a piedi ma ricollocati tra comuni e regioni. Ad ogni modo, spiegano i costituzionalisti, è sbagliato pensare al risparmio in sé: “il buon funzionamento delle istituzioni non è prima di tutto un problema di costi legati al numero di persone investite di cariche pubbliche bensì di equilibrio fra organi diversi, e di potenziamento, non di indebolimento, delle rappresentanze elettive”. Una velata accusa di populismo.
Minor rappresentatività
Chi è contro la riforma non vede di buon occhio l’aumento delle firme necessarie per la presentazione di disegni di legge di iniziativa popolare: finora ne bastavano 50mila, se vince il sì ne serviranno 150mila. Senza contare che la nascita di enti elettivi di secondo grado e la cancellazione di un organo consultivo come il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro rischia di minare alcune forme di rappresentanza, temono i costituzionalisti.
Regioni svuotate
Alle regioni rimarranno competenze in materia di organizzazione sanitaria, turismo e praticamente niente altro, spiegano gli scettici: praticamente un ribaltamento delle riforma federalista del 2001, che toglie alle Regioni quasi ogni spazio di competenza legislativa, facendone organismi privi di reale autonomia.
Rischio democratico
I difensori della Costituzione del 1948 vedono in questa riforma il pericolo potenziale di una “stretta oligarchica”, nel senso di un forte rafforzamento dei poteri del premier e dell’esecutivo. In questo senso, proprio la fiducia concessa solo dalla Camera e l’Italicum possono arrivare a costituire anche un pericolo per la democrazia.
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