Due termini correlati che esprimono concetti leggermente diversi. Abbiamo chiesto aiuto a Vidas per capire.
Fertility day, un’iniziativa che offende tutte le donne
Puntare il dito – con il Fertility day – sulle donne “colpevoli” di rimandare la maternità è fuori luogo, specie in un Paese che non sostiene le famiglie e le madri che lavorano
Sull’onda delle polemiche che hanno infiammato il web da quando è stata lanciata la campagna del Fertility Day, promossa dal ministero della Salute e che avrebbe l’obiettivo di ovviare al calo delle nascite nel nostro Paese, abbiamo chiesto alla nostra collaboratrice Silvana Santo, giornalista, autrice del blog Una mamma green, di raccontarci la sua personale esperienza.
“Quando sono rimasta incinta del mio primo figlio avevo 31 anni, un lavoro autonomo a basso reddito (o meglio, un lavoro dipendente mascherato da Partita Iva) e una fifa blu. Per fortuna potevo contare anche su un piccolo appartamento ereditato dai nonni e un marito con un impiego stabile, per cui quella gravidanza, nonostante la paura, ho potuto in qualche modo permettermela, a differenza della stragrande maggioranza delle mie coetanee, spesso alle prese con la ricerca di un lavoro, con affitti esorbitanti, mutui insostenibili e la totale impossibilità di programmare anche le ferie di Ferragosto. Allora immaginavo che sarebbe stata dura, anche se non sapevo ancora un sacco di cose che avrei presto scoperto sulla mia pelle di madre, soprattutto quando, appena un anno e mezzo dopo, ho scoperto un po’ a sorpresa di aspettare la mia secondogenita.
Non sapevo davvero, in primo luogo, quanto sarebbe stato difficile continuare a lavorare. Non solo perché c’è bisogno che qualcuno si occupi di tuo figlio mentre tu fai il lavoro che ami, e che ti garantisce l’indipendenza economica per cui hai studiato e faticato tutta la vita. Ma perché per una libera professionista, in Italia, avere un bambino equivale a un salto nel buio e senza paracadute. Nessuno ti assicura che continuerai a lavorare, nessuno ti paga nei mesi (o nelle settimane!) in cui non lavori per occuparti del tuo neonato, nessuno ti garantisce una copertura per le volte in cui tuo figlio si ammalerà, dovrà fare le vaccinazioni o i controlli dal pediatra. In poche parole, ti devi arrangiare. E questo purtroppo vale anche per molte dipendenti, specialmente nel sottobosco malamente illuminato delle piccole aziende private del meridione. Io sono stata fortunatissima: ho preso, entrambe le volte, qualche spicciolo dalla cassa previdenziale dei giornalisti, ho potuto contare sull’aiuto della famiglia e, soprattutto, su un marito che, lavorando in una grande azienda, ha potuto concedersi senza troppe remore le due ore al giorno di congedo parentale fino al primo compleanno dei nostri figli.
Non immaginavo, ingenua, che durante le gravidanze avrei speso centinaia di euro per gli esami del sangue, e che una volta nati i miei figli avrei dovuto pagare la quasi totalità dei farmaci necessari per i loro malanni fortunatamente sempre banali. Non sapevo che dopo il primo cesareo d’urgenza sarebbe stato così problematico accedere a un parto naturale che avrei finito col rinunciare in partenza, subendo un intervento doloroso e quasi certamente evitabile (oltre che a carico del Sistema sanitario nazionale) ad appena 21 mesi dal precedente. Non sapevo che avrei dovuto affrontare senza un vero supporto da parte delle strutture ospedaliere una depressione perinatale, e che anche far partire l’allattamento – in barba alle campagne informative e agli spot nel web – sarebbe stato un mio esclusivo problema, risolto solo grazie al supporto delle mie familiari (ma a onor del vero in altre zone d’Italia almeno questo funziona diversamente).
Non potevo assolutamente prevedere che ogni mia singola scelta di madre sarebbe stata vivisezionata, analizzata e giudicata da persone vicine e lontane, e che anche solo uscire a cena coi miei figli piccoli sarebbe stato estenuante, e non solo perché i bambini sanno essere molto impegnativi, ma perché la società italiana ha perso in larga parte la capacità di accogliere le famiglie e di offrire loro dei servizi minimi (un fasciatoio in un ristorante, ad esempio, o un’area gioco decente in ogni parco di paese), di empatizzare con le madri, di solidarizzare con i neogenitori, riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione e a sbagliare con la propria testa.
Sapevo già perfettamente, invece, che avrei dovuto pagare il nido per i miei figli, salvandomi solo perché vivo in una città con un costo della vita accettabile e perché la mia condizione di precaria mi “garantisce” una flessibilità che le lavoratrici dipendenti non anno (che fortuna, eh!).
Quasi mai, negli ultimi 4 anni, ho sentito che lo stato italiano stava supportando la mia scelta di mettere al mondo dei figli. Spesso, al contrario, mi sono sentita sola, avvilita, penalizzata o per lo meno invisibile. Ogni tanto, nei momenti peggiori, mi sono chiesta chi me lo avesse fatto fare.
Per tutte queste ragioni ho trovato profondamente ipocrita e offensiva la campagna sul #fertilityday lanciata in rete dal ministro della Salute Beatrice Lorenzin. Ipocrita perché attribuisce alle donne italiane la scelta, ritenuta penalizzante per il “bene comune”, di ritardare il momento della maternità, senza investire su politiche concrete a sostegno delle famiglie e senza garantire a tutti cure moderne e accessibili per l’infertilità, oltre a una seria riforma del sistema delle adozioni. Offensiva doppiamente, perché da un lato mortifica le donne che i figli li vorrebbero, ma per tante ragioni sono costrette a rimandarne la ricerca – problemi di salute, disoccupazione, precariato, basso reddito, mancanza di una casa, impossibilità di accedere ad asili nido gratuiti, etc – e dall’altro accusa quelle che hanno deciso di posporre la maternità per libera scelta, o che un figlio non lo vogliono proprio. E non dovrebbero per nessuna ragione al mondo, nel bel mezzo del ventunesimo secolo, essere biasimate per questo.
Far conoscere alle italiane e agli italiani le principali cause scientifiche dell’infertilità femminile e maschile è un obiettivo importante. Sottolineare i rischi sociali della denatalità, soprattutto in un momento di acceso dibattito in tema di immigrazione, è comprensibile, se non espressamente necessario. Ma da madre più o meno giovane (me lo dica il ministro Lorenzin, se sono riuscita ad arrivare entro il tempo massimo) non riesco a immaginare un modo peggiore del #fertilityday per fare entrambe le cose”.
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