“Si chiudono in bagno, alzano la musica, parlano piano, sfruttano i pochi momenti a disposizione fuori casa, come quando buttano la spazzatura o vanno a fare la spesa. Con il lockdown è cambiato il modo di comunicare con il 1522 delle donne vittime di violenza”.
Michela ha 42 anni e di lavoro risponde alle telefonate di chi vuole denunciare una violenza di genere. Una professione che svolge da quattordici anni e che in questo 2020 ha visto cambiare molto. La pandemia ha costretto al lockdown nazionale e la convivenza forzata ha aumentato i rischi di violenza domestica. Le telefonate al 1522, il numero attivato dal dipartimento per le Pari opportunità e oggi gestito da Differenza Donna per l’emersione e il contrasto del fenomeno della violenza di genere intra ed extra familiare, sono aumentate notevolmente a partire da marzo. Allo stesso tempo però, con il lockdown si sono ridotti i momenti e gli spazi a disposizione per poter chiedere aiuto.
“Le donne stanno mettendo in atto diverse strategie per parlare senza essere ascoltate”, continua Michela, “per evitare che possa innescarsi un’ulteriore escalation della violenza nei loro confronti”.
Il numero antiviolenza continua a squillare
Secondo quanto rilevato dall’Istat, che ha analizzato i dati messi a disposizione dal numero antiviolenza 1522, tra marzo e giugno 2020 le telefonate e le comunicazioni via chat con il centralino sono più che raddoppiate rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, con un +119,6 per cento. Il numero complessivo di contatti validi nel periodo preso in considerazione è stato di 15.280, di cui circa un terzo poi trasferiti ad altri servizi come quello dei centri antiviolenza. Numeri assolutamente non paragonabili col passato.
A questo hanno certamente contribuito le campagne di sensibilizzazione trasmesse sui media e sui social network, ma l’incremento è stato troppo accentuato perché tutto possa essere ridotto a questo. Il lockdown totale in cui si è ritrovata l’Italia non può non avere avuto un impatto decisivo nella crescita delle richieste di aiuto. E l’analisi dei dati offre diversi indizi in questa direzione. I contatti via chat, che non richiedono una comunicazione a voce nel contesto della quarantena, si sono quintuplicati in primavera. Inoltre, sono aumentate le telefonate effettuate di notte, uno dei pochi frangenti in un contesto di convivenza forzata in cui è possibile ritagliarsi un momento di solitudine.
L’impennata di contatti si è avuta poi proprio con l’inizio del lockdown totale su tutto il territorio nazionale. Se fino a metà marzo si registrava una media di circa 50 telefonate al giorno, alla fine del mese sono state superate abbondantemente le 100, con picchi anche superiori a 200 ad aprile. Da giugno, con la fase due e la possibilità di tornare a uscire di casa, i numeri sono tornati a scendere sotto quota 100 chiamate giornaliere. Intanto, i procedimenti iscritti per maltrattamenti contro familiari e conviventi catalogabili come violenza di genere sono aumentati dell’11 per cento.
“La pandemia sanitaria si è aggiunta alla pandemia della violenza di genere, che purtroppo esiste da sempre. La convivenza forzata ha sicuramente accentuato la violenza, si sono venuti a creare più momenti dello stare insieme suscettibili di tradursi in episodi di violenza, la donna si è ritrovata maggiormente esposta a situazioni di questo tipo”, spiega Michela, l’operatrice del 1522. “Passare 24 ore su 24 in casa al fianco di un uomo violento fa aumentare i momenti di contatto con quest’ultimo e dunque anche il pericolo che questa violenza venga esercitata”.
Chi sono le operatrici telefoniche
Il 1522 non chiude mai, perché la violenza di genere non conosce orari. Dare alla donne vittime di abusi la possibilità di telefonare al centralino in ogni momento della giornata, anche in piena notte, diventa allora fondamentale. Attivo 24 ore su 24 tutti i giorni dell’anno, il servizio offre accoglienza in italiano, inglese, francese, spagnolo e arabo.
Con il lockdown è cambiato il modo di comunicare delle donne vittime di violenza
Michela, operatrice telefonica 1522
Le operatrici si trovano a gestire situazioni molto diverse tra loro, danno una prima risposta ai bisogni delle vittime con informazioni utili e un orientamento verso i servizi socio-sanitari pubblici e privati presenti sul territorio nazionale, ma in fin dei conti offrono anche un sostegno psicologico a chi telefona. Un ruolo non semplice, che richiede adeguata preparazione prima di intraprendere questa professione, ma anche durante.
“C’è un corso di formazione apposito per operatrice, dura un anno e attraverso un percorso di affiancamento permette poi di poter svolgere attività nei centri antiviolenza, nelle case rifugio e via dicendo”, racconta Michela, che evidenzia come la formazione vada avanti tutti i giorni, anche per chi come lei fa questo lavoro da ormai tanto tempo. “C’è un continuo scambio di pareri e punti di vista tra colleghe, si cerca di aggiustare il tiro rispetto alle nuove situazioni con cui ci interfacciamo nelle telefonate. Ci si confronta, c’è collaborazione, scambio di idee continuo e costante, per affinare il nostro operato e poter offrire il miglior servizio possibile”.
Una volta che finisce il turno, è difficile staccare con la testa. Quello delle operatrici dei centralini antiviolenza è un lavoro mentalmente complesso, per le storie e le tematiche con cui ci si confronta quotidianamente. Ma è anche una missione, che viene portata avanti dentro e fuori l’orario di lavoro. “Operare all’interno di un’associazione come questa è un modo di vivere, noi abbracciamo a 360 gradi la lotta contro la violenza di genere e le discriminazioni multiple, nella nostra vita quotidiana cerchiamo sempre di dare il meglio per promuovere il benessere collettivo contro tutte le azioni che limitano la libertà del singolo o della singola”, continua Michela.
“Non è un lavoro da cui stacchi e di cui ti dimentichi una volta che torni a casa, è una mission continua che coinvolge tutta la tua vita. Per questo c’è molto conforto reciproco, una grande elaborazione dei nostri stati d’animo, siamo un gruppo di donne che fanno un grande lavoro anche su se stesse”.
Servono più risorse per il servizio
Un impegno che dà i suoi frutti e che in questi anni ha aiutato migliaia di donne a uscire da una condizione di abusi e violenze. Purtroppo però le statistiche e la cronaca ci raccontano che la situazione è ancora critica, anche perché di mezzo si sono messi fattori esterni come la pandemia e il conseguente lockdown che hanno amplificato la vulnerabilità di molte donne nell’ambiente domestico. “Se penso a quando ho iniziato questo lavoro 14 anni fa, devo dire che oggi la società prende sempre più coscienza del fenomeno della violenza di genere, tende a conoscerlo di più rispetto ad allora”, ammette Michela. “Bisogna però ancora fare tantissimo, la società civile deve impegnarsi attraverso un lavoro nelle scuole, corsi di formazione anche per le forze dell’ordine, campagne di sensibilizzazione, per raccontare meglio il fenomeno e contribuire alla creazione di un contesto sociale privo di qualsiasi forma di violenza”.
Perché ciò avvenga, serve anche che si mettano a disposizione della causa le risorse che ci sono, ma che non vengono erogate. Come mostra il rapporto appena diffuso da ActionAid, Tra retorica e realtà. Dati e proposte sul sistema antiviolenza in Italia, le regioni al momento hanno erogato solo il 72 per cento dei fondi relativi all’annualità 2015-2016 messi a disposizione dal dipartimento Pari opportunità, il 67 per cento di quelli del 2017, il 39 per cento del 2018 e solo il 10 cento per il 2019. Un bug che sta mettendo in ginocchio diverse realtà soprattutto in questi mesi di Covid-19, quando servirebbero più che mai finanziamenti per far fronte alla crescita delle persone che necessitano di aiuto. Nei centri antiviolenza di Cremona, per esempio, la reperibilità è stata estesa a 24 ore su 24 in questi mesi, nonostante le risorse umane siano state ridotte del 50 per cento.
La pandemia sanitaria si è aggiunta alla pandemia della violenza di genere, che purtroppo esiste da sempre
Michela, operatrice telefonica 1522
A tenere in piedi il sistema sono insomma sempre loro, le operatrici dei centri antiviolenza, che a fronte di riduzioni anche importanti del personale e delle risorse si sono rimboccate le maniche per continuare a offrire alle donne un servizio indispensabile. Una grande capacità di adattamento e di risposta in una situazione straordinaria, che ora deve essere normalizzata, così che i servizi di contrasto alla violenza di genere non solo sopravvivano, ma si rafforzino.
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