Il team di ricerca Forensic Architecture ha mappato con telerilevamento e modellazione 3D gli attacchi israeliani su Gaza, evidenziando un pattern preciso contro i civili.
Cosa abbiamo imparato a 20 anni dallo scoppio della guerra in Iraq
A vent’anni dall’invasione statunitense dell’Iraq, basata su fake news, il Paese continua a sopravvivere sulle macerie del conflitto. Cos’è successo in questi anni?
- Sono passati 20 anni dall’inizio della guerra in Iraq, una delle cause principali di instabilità nella regione.
- Gli Stati Uniti sono rimasti “impuniti” per una guerra scatenata sulle base di fake news e sulla violazione del diritto internazionale.
- Ancora oggi, l’Iraq non riesce a riprendersi dal conflitto e vive in una continua crisi politica ed economica.
Sono passati vent’anni dall’emblematica immagine dell’abbattimento della statua di Saddam Hussein a Baghdad avvenuta il 9 aprile 2003. E le uccisioni, a distanza di vent’anni, continuano. Nei primi tre mesi del 2023, sono almeno 108 i civili morti in Iraq in sparatorie, attentati o altre forme di attacchi. La violenza è un’eco della Seconda guerra del golfo, iniziata con i bombardamenti su Baghdad e l’invasione statunitense, nella notte tra il 19 e il 20 marzo 2003. In meno di due mesi, la coalizione occidentale ha sganciato, secondo Human rights watch, 29.199 bombe sul Paese, la maggioranza delle infrastrutture irachene furono distrutte e, secondo l’Iraq body count, una ong britannica indipendente, più di settemila civili rimasero uccisi. Il numero di sfollati in vent’anni ha superato quota nove milioni. Solo quaranta giorni di combattimento che hanno portato alla vittoria statunitense, ma che non hanno fatto altro che dare inizio a una battaglia lunga vent’anni. Il conflitto in Iraq è uno di quelli in cui è più complesso stimare il numero delle vittime. Nel 2006, infatti, la rivista scientifica Lancet pubblicò uno studio secondo il quale le vittime si aggirano intorno le 650mila.
La più grande fake news del millennio
Le due ragioni addotte dagli Stati Uniti per giustificare la guerra erano notizie false. Il casus belli dell’intervento in Iraq è stato un presunto arsenale di uranio impoverito che Saddam avrebbe comprato dal Niger per costruire armi di distruzioni di massa. A sostegno di questa tesi, ci furono i dossier presentati dall’allora primo ministro britannico Tony Blair – che nel 2016 ammise l’errore. La seconda bufala fu l’ipotetico legame tra Saddam Hussein e gli attacchi dell’11 settembre 2001, teoria diffusa dall’amministrazione Bush per giustificare l’intervento. Dopo l’invasione non è stato trovato l’arsenale, l’Iraq non ha avuto un ruolo negli attentati dell’11 settembre e Saddam Hussein non aveva legami con Osama bin Laden o il suo gruppo terroristico di Al Qaeda. Le informazioni utilizzate per fare queste affermazioni erano false. L’apice di questa campagna propagandistica è stato raggiunto il 5 febbraio 2003, quando l’allora segretario di stato americano Colin Powell si è recato alle Nazioni unite per presentare le “prove” dei programmi iracheni di armi di distruzione di massa, compresi gli sforzi per acquisire armi nucleari. Famosa è l’immagine di Powell con in mano una provetta alla riunione del Consiglio di sicurezza. Dopo aver lasciato l’amministrazione Bush, Powell è stato uno dei pochi funzionari statunitensi a pentirsi del suo ruolo nel portare il Paese in guerra, definendo quel discorso alle Nazioni unite una “macchia” sul suo curriculum.
L’Iraq è stato a lungo un obiettivo degli Stati Uniti
La volontà di rovesciare il regime di Saddam è stata presente nella politica estera statunitense per molto tempo, almeno dall’Iraq Liberation act del 1998. Saddam rappresentava una sfida per gli Stati Uniti, semplicemente per la sua capacità di essere sopravvissuto alla Prima guerra del golfo. Gli Stati Uniti speravano in un suo rovesciamento, ma Saddam è rimasto al suo posto: un ostacolo all’esercizio dell’egemonia americana nella regione. Gli attentati dell’11 settembre sono stati l’occasione per dare all’amministrazione Bush ampio margine di manovra per incanalare la rabbia dell’opinione pubblica e dare forma alla risposta. Quell’epoca ha coinciso con l’apice del potere a stelle e strisce dopo la Guerra fredda, in contrasto con l’ordine mondiale basato sulle regole che, fino ad allora, gli Stati Uniti hanno sostenuto. Regole e norme che Washington ha scritto, ma che vìola ogni volta che è scomodo seguire – motivo per cui gli Stati Uniti non hanno mai ratificato lo Statuto di Roma che instaura la Corte penale internazionale.
La guerra in Iraq come violazione del diritto internazionale
Il conflitto in Iraq è stato un uso della forza contrario al diritto internazionale e una violazione della Carta delle Nazioni unite, in particolare dell’art. 51 che sancisce i criteri per l’intervento militare. L’invasione non è basata su una risoluzione delle Nazioni unite e questo lascia solo la possibilità dell’autodifesa. In supporto a questa tesi ci furono le dichiarazioni dell’allora segretario generale delle Nazioni unite, Kofi Annan, che definì la guerra in Iraq illegale secondo il diritto internazionale. La decisione di invadere l’Iraq ha creato grandi scontri tra gli Stati Uniti e gli alleati europei, in particolare con l’ex presidente francese Jacques Chirac e l’allora cancelliere tedesco Gerhard Schröder.
Tortura, crimini di guerra e Julian Assange
La reputazione globale dell’America è andata ulteriormente peggiorando con la rivelazione di crimini di guerra e torture. All’inizio del 2004, il mondo conosceva già il nome di Abu Ghraib: una delle peggiori prigioni in cui il regime torturava gli oppositori. Lo scopo della prigione non è cambiato sotto il controllo delle forze statunitensi. La maggior parte dei detenuti nella prigione di Abu Ghraib sotto la guida americana, risulta essere civili, molti dei quali arrestati durante le retate effettuate a caso dai militari e ai posti di blocco. Essi rientravano in tre categorie generiche: delinquenti comuni, sospettati di crimini contro la coalizione e un piccolo numero di sospetti esponenti di alto valore del movimento insurrezionale. Grazie ad un’inchiesta dell’emittente Cbs, le immagini sono state rese pubbliche e hanno fatto il giro del mondo. Le fotografie raffigurano marines mentre sbeffeggiavano prigionieri iracheni nudi costretti ad assumere posizioni umilianti. Sei dei militari sospetti erano già all’epoca in attesa di giudizio in Iraq, per maltrattamenti nei confronti dei prigionieri. Tutti i soldati coinvolti sono stati giudicati davanti al tribunale militare: la maggior parte di essi congedati con disonore, solo due soldatesse condannate una a tre anni e una a sei mesi di reclusione.
Molteplici sono gli episodi avvenuti contro i civili. Molti documenti contenenti questi casi sono diventati pubblici grazie al lavoro della whistleblower Chelsea Manning e a Wikileaks che ha pubblicato nel 2007 il video Collateral murder, in cui si può vedere un elicottero d’attacco statunitense che spara sui civili, uccidendo dodici persone, tra cui un giornalista della Reuters. Grazie al lavoro fatto da Wikileaks, Julian Assange, il giornalista caporedattore e cofondatore dell’organizzazione, è ricercato dagli Stati Uniti per aver diffuso documenti segreti che testimoniano i crimini di guerra commessi dagli Stati Uniti. Se estradato, rischia di essere condannato a 175 anni di reclusione.
Vincere la guerra, perdere la pace
La campagna militare è stata una delle ultime espressioni di arroganza della convinzione dell’Occidente di poter rimodellare un Paese e un ordine regionale secondo le proprie preferenze, in linea con quella che allora era la dottrina Bush, delineata all’interno dei Quaternary defence review pubblicati dopo gli attacchi alle Torri gemelle. Riassumendo, secondo Bush gli Stati Uniti avevano il ruolo di “nazione necessaria” per il mantenimento dell’ordine mondiale, con il resto del mondo subordinato a Washington. Alla Nato, si sono preferite le coalitions of willings, le coalizioni dei volenterosi. Il secondo punto è il concetto di guerra preventiva che in realtà non trova nessuna base giuridica nel diritto internazionale. Secondo Bush, la deterrenza non serve a nulla contro le organizzazioni terroristiche e gli stati considerati terroristi – tra cui l’Iraq – l’unica opzione è l’azione, quindi la guerra. In ultimo, la teoria più fallimentare: l’esportazione della democrazia. Trasformare l’Iraq in una democrazia di tipo occidentale si è rivelato più difficile di quanto inizialmente ipotizzato. Il mosaico sociale iracheno ha sopraffatto un’amministrazione dell’occupazione impreparata.
Gli Stati Uniti hanno creato immediatamente l’Autorità provvisoria della coalizione (Cpa) che, per prima cosa, cacciò dalle istituzioni dello stato chiunque avesse collaborato con il partito Baath di Saddam – per poter lavorare nelle istituzioni era necessario far parte del partito del regime, quindi sono stati tutti licenziati. In secondo luogo, venne smantellato l’esercito, rendendo disoccupate migliaia di persone che, armate, si sono organizzate in milizie e hanno cominciato a farsi la guerra tra loro. Parti di essi sono confluite nell’allora sezione irachena di Al Qaeda, guidata da Al Zarqawi per poi seguire, nel 2013, Al Baghdadi tra le file di Daesh, il brutale gruppo terrorista islamista sorto sulle rovine del regime. L’ultimo grande errore è stata l’organizzazione del sistema politico introdotto dopo la caduta del regime. Il sistema è progettato dalla collaborazione tra americani e iracheni in esilio, la maggior parte oppositori del regime di Saddam che vivevano in Iran. La progettazione del sistema è stata antecedente all’invasione, in un meeting organizzato a Londra nel novembre del 2002. Un sistema creato fuori dal Paese, senza la partecipazione della popolazione e calato dall’alto. Il sistema proposto è basato sui gruppi etnici. I tre gruppi principali in Iraq sono i sunniti, gli sciiti e i curdi. Il regime di Saddam era di stampo secolarista dove i sunniti governavano sulla maggioranza sciita e sui curdi – perseguitata dal regime, anche con azioni di pulizia etnica. Il nuovo sistema prevede che il primo ministro, che nei fatti governa il Paese, sia sempre sciita, il presidente curdo e lo speaker del Parlamento sunnita. Questo modello ha avvantaggiato le opposizioni in esilio, coloro che hanno di fatto costruito il sistema stesso.
Una crisi senza fine
L’economia irachena oggi soffre, non solo per la corruzione, ma per un mancato investimento nel mercato del lavoro, nel contrastare l’inflazione e nella riduzione del prodotto interno lordo. La crisi è stata amplificata nel biennio del conflitto tra la coalizione internazionale e le milizie di Daesh, che hanno distrutto il Paese, perseguito le minoranze – come il genocido degli yazidi – e aggravato la condizione degli sfollati interni. L’insofferenza popolare ha riversato nelle strade del Paese, nell’ottobre del 2019, migliaia di persone contro la corruzione, la crisi economica e contro il governo. Le manifestazioni, inizialmente represse nel sangue, sono continuate fino alle elezioni dell’ottobre 2021, vinte dalla figura controversa di Muqtada al Sadr.
Al Sadr è il religioso più importante conosciuto in Iraq e all’estero, presente nella scena politica del Paese sin dal 2003. Infatti, la sua milizia, l’esercito del Mahdi, è nota per diversi attacchi compiuti contro i militari americani che occupavano in Paese. In quel periodo, al Sadr aveva strettissimi legami con l’Iran. La milizia uccise migliaia di soldati statunitensi e forze del governo iracheno e partecipò ad alcune delle più terribili violenze settarie compiute contro i sunniti nel corso degli anni 2000. Col tempo, è riuscito a ripulire la sua immagine trasformandosi da signore della guerra a leader populista. Dopo le elezioni, l’empasse politica iniziata dall’impossibilità di al Sadr di creare un governo è durata fino al novembre del 2022, con la nomina di Mohammad Shia al-Sudani a capo del governo, leader del gruppo sciita più vicino all’Iran. Tutto questo dimostra quanto sia difficile per l’Iraq andare avanti. Il Paese è stato profondamente distrutto dall’invasione e, vent’anni dopo, sta ancora cercando di rimettere insieme i pezzi. Gli Stati Uniti hanno una responsabilità profonda per le condizioni attuali dell’Iraq, ma gli stessi iracheni, in particolare chi ha gestito il Paese dal 2003, condividono le responsabilità del disastro.
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