
Il rapporto annuale dell’agenzia Irena indica che il 92,5 per cento dei nuovi impianti installati nel 2024 è legato alle fonti rinnovabili.
L’ong tedesca Urgewald ha creato un database con le 120 aziende che sostengono la costruzione di nuovi impianti a carbone.
Non c’è più spazio per il carbone, il futuro è nelle rinnovabili. Lo ha spesso sottolineato Christiana Figueres, l’ex segretario esecutivo dell’United Nation Framework Convention on Climate Change (Unfccc) dell’Onu. Un messaggio che non tutti sembrano aver colto, tanto che esistono ancora aziende che continuano a investire nel carbone. Una organizzazione non profit tedesca ha stilato una lista di chi continua a giocare con il futuro del nostro Pianeta.
La ong tedesca Urgewald ha mappato le società che hanno manifestato l’interesse o stanno sostenendo economicamente la costruzione di nuovi impianti a carbone. Tutti i risultati sono stati organizzati in un database ottenuto mettendo insieme dati pubblici raccolti dai bilanci delle società, da siti web e da documenti dei singoli investitori. La banca dati è consultabile gratuitamente online sul sito www.coalexit.org. Un lavoro svolto insieme a organizzazioni come Banktrack, Les Amis de la Terre, Rainforest Action Network, Development Yes Open Mines No, Asian People’s Movement on Debt and Development, oltre all’italiana Re:Common, un’associazione che lavora per informare e prevenire la corruzione e la distruzione dei territori.
La black list ha preso in analisi 120 società che stanno attivamente puntando sul carbone con oltre 1.600 le nuove centrali progettate o in fase di realizzazione a livello mondiale, per un totale di 840mila megawatt di potenza.
Tra le società più attive nel sostenere nuove infrastrutture per lo sfruttamento del carbone spicca al primo posto della classifica l’indiana India’s Thermal Power Corporation (38mila megawatt), le cinesi SPIC (31.500 megawatt), China Datant (28.900 megawatt) e Shenhua (17.250 megawatt). La prima realtà africana è l’azienda sudafricana Eskom, che si aggiudica il quindicesimo posto, per l’Europa è la polacca Polska Grupa Energetyczna.
Leggendo la black list delle aziende coinvolte con il carbone colpisce il fatto che molte non sono propriamente legate all’industria del carbone. ToyoInk è un caso particolarmente interessante. Si tratta di un produttore di inchiostri e materiali di stampa che ha sede in Malesia e che sta cercando nuovi modelli di business. Chiudendo gli occhi di fronte al fatto che l’energia pulita offra costi di progetto più redditizi per gli investitori e, allo stesso tempo, benefici di un sostegno normativo grossomodo stabile in tutto il mondo – come ha rilevato un’analisi di Frost & Sullivan –, ToyoInk ha deciso di attivarsi proprio nell’industria del carbone. Un’occasione persa visto che gli investimenti nelle fonti rinnovabili sono in piena espansione a scapito proprio dei metodi tradizionali di generazione elettrica.
L’aspetto più preoccupante rilevato dall’indagine di Urgewald riguarda l’intenzione di alcuni investitori di creare centrali a carbone dove il carbone non è stato ancora mai sfruttato. È ciò che potrebbe succedere in Pakistan che passerebbe da 190 a 15.278 megawatt di capacità, in Egitto (da zero a 17mila megawatt) e Bangladesh (da 250 a 15.960 megawatt), ma anche in Malawi o negli Emirati Arabi. Perché l’investimento possa avere un ritorno economico soddisfacente, questi nuovi impianti dovrebbero funzionare per almeno i prossimi 40 anni. Iniziative che potrebbero spazzare via in un sol colpo tutti gli sforzi che un’altra fetta del mondo sta facendo per contenere l’aumento delle temperature globali e limitare il cambiamento climatico. Se infatti i loro distruttivi progetti vedessero la luce, ci si potrebbe attendere un aumento della temperatura intorno ai 4°C: una variazione enorme rispetto al valore massimo di 1,5°C indicato come soglia di sicurezza dagli scienziati del clima.
Nella lista elaborata da Urgewald non ci sono aziende italiane direttamente coinvolte in nuovi progetti legati al carbone. Un approfondimento di Re:Common ha però rilevato la presenza di qualche investitore italiano dietro a società inserite nella black list. È il caso della polacca Polska Grupa Energetyczna (Pge), la più attiva in Europa nel sostenere nuove infrastrutture per lo sfruttamento del carbone. L’85 per cento dell’energia prodotta da Pge proviene dal carbone, incluso un 30 per cento dalla lignite, il carbone di più bassa qualità e il più inquinante esistente. Cosa che non ha spaventato Generali che nel 2016 l’ha premiata con 33,8 milioni di dollari di investimento e che può quindi a pieno titolo vincere il triste primato di sponsorizzare l’espansione del peggiore carbone esistente in Europa.
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