Una strage continua, con numeri che anno dopo anno non accennano a diminuire. 42 giornalistisono stati uccisi nel 2020 mentre facevano il loro lavoro, secondo quanto rilevato dal report annuale della International federation of journalists (Ifj). Altri 235 sono stati imprigionati dai governi nazionali a causa delle loro attività considerate scomode. Attentati, arresti arbitrari, intimidazioni: per molti la professione del giornalismo continua a essere motivo di stress e paura per le ritorsioni che ne possono derivare. E tra tutti i paesi, il peggiore da questo punto di vista è il Messico.
Da trent’anni la International federation of journalists (Ifj), la più grande federazione che riunisce sindacati e associazioni di giornalisti, raccoglie i dati sugli attacchi subiti dai reporter in giro per il mondo. A oggi i giornalisti uccisi sono stati 2.658, di cui 42 nel 2020. Quest’ultimo dato è all’incirca lo stesso di quello degli anni Novanta, a riprova del fatto che sebbene oggi i numeri siano in leggero calo rispetto a qualche anno fa, in generale la condizione del reporter non è andata incontro a reali miglioramenti.
Il paese più pericoloso per la professione di giornalista è il Messico, con 13 omicidi quest’anno. Al secondo posto il Pakistan, con cinque uccisioni, mentre in Afghanistan, India, Iraq e Nigeria sono state tre. Un altro grande problema riguarda poi le incarcerazioni. 235 giornalisti sono stati arrestati nel 2020, spesso senza accuse formali, se non le inchieste scomode che stavano conducendo. Un forte ostacolo alla libertà di stampa, che da una parte funziona come bavaglio, dall’altra rende difficile raccontare la verità per timore delle conseguenze.
On #HumanRightsDay2020, we launch a White Paper on Global Journalism to contribute to the debate on the challenges faced by our profession 🗞️ It shows that 2658 journalists have been killed since 1990, 42 of them in 2020, and 235 are currently in prisonhttps://t.co/MeWv4yeqg9
“Questi risultati mettono in luce i gravi abusi commessi dai governi che cercano di proteggersi dalle responsabilità incarcerando i giornalisti e negando loro un giusto processo”, ha sottolineatoYounes Mjahed, presidente della International federation of journalists, “Il numero impressionante di nostri colleghi in carcere è un promemoria del prezzo che i giornalisti di tutto il mondo pagano per la loro ricerca della verità”.
Il caso messicano
In quattro degli ultimi cinque anni, il paese che ha fatto registrare più omicidi di giornalisti è il Messico. E il 2020 è stato più che mai un annus horribilis da questo punto di vista, con un terzo degli omicidi a livello globale. Qualche settimana fa un membro del governo ha fornito un bollettino ancora più tragico, parlando di 19 decessi contro i 13 conteggiati dalla International federation of journalists, e sottolineando come nell’ultimo decennio nel paese siano stati assassinati in totale 138 giornalisti.
Solo a novembre, due giornalisti messicani sono stati uccisi con arma da fuoco nel giro di dieci giorni: Israel Vázquezè stato freddato in strada mentre indagava su un presunto omicidio; Jesús Alfonso Piñuelas, che si occupava di crimine e sicurezza nella municipalità di Cajeme, è stato ucciso mentre guidava la sua motocicletta. C’è stato anche un terzo omicidio, quello del reporter Arturo Alba Medina per mano di una gang locale, ma le istituzioni locali lo hanno bollato come “errore”, una versione che a molti non convince.
C’è un problema istituzionale e giudiziario dietro a questi numeri tragici. Le autorità fanno molto poco nella ricerca dei responsabili, tanto che solo il 5 per cento degli omicidi di reporter commessi negli ultimi anni si è risolto con una sentenza di condanna. “Se vuoi uccidere un giornalista, puoi farlo senza grandi rischi di essere catturato”, ha denunciatoJan-Albert Hootsen, rappresentante in Messico del Committee to protect journalists (Cpj). La soppressione violenta della libertà di stampa in Messico resta troppo spesso impunita, senza leggi e tribunali a fare da deterrente.
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