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3 ottobre 2013, la strage dei migranti a Lampedusa

368 migranti morirono il 3 ottobre 2013 a causa del naufragio di un barcone al largo di Lampedusa. Una tragedia che resta impressa nella memoria dell’isola.

“Li tiravamo su con le cime, con le scalette. Ci siamo quasi buttati in acqua anche noi. Ma erano scivolosi, pieni di nafta e non riuscivano a tirarsi su. Erano stremati, nudi. Abbiamo fatto quello che potevamo. Ne abbiamo tirati su venti. Compresi due cadaveri. Mi sono messo a piangere”. È il 3 ottobre 2013. È ancora mattina. Un pescatore è appena rientrato con suo fratello dal mare. Carico di esseri umani.

Sul barcone 500 persone partite da Misurata, in Libia

Alle 3 del mattino, un barcone partito due giorni prima dal porto libico di Misurata arriva a poca distanza dalle coste di Lampedusa, nella zona dell’isola dei Conigli. A bordo ci sono 500 persone. Uomini, donne e bambini. Impossibile avvicinarsi di più alla costa, così qualcuno decide di dare fuoco ad una coperta per cercare di rendersi visibili nel buio della notte.

È l’inizio della fine: parte del barcone prende fuoco. Le persone, in preda al panico, si spostano da un lato. L’imbarcazione si ribalta. Dopo alcune ore, dei pescherecci nei paraggi avvistano i naufraghi in mare e danno l’allarme: “È pieno di gente qui, correte. Sono centinaia, correte!”.

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Cittadini di Lampedusa in preghiera di fronte alla Porta d’Europa dopo il tragico naufragio del 3 ottobre 2013 © Tullio M. Puglia/Getty Images

Scatta la macchina dei soccorsi. Ma per molti ormai è tardi: il bilancio di una delle peggiori catastrofi avvenute nel Mediterraneo è di 368 morti accertati (362 eritrei e 6 etiopi). Venti presunti dispersi. E soltanto 155 tratti in salvo.

Il ricordo del medico di Lampedusa Pietro Bartolo

“Quel giorno io c’ero, come sempre – ha raccontato a LifeGate Pietro Bartolo, medico di Lampedusa dall’inizio degli anni Novanta -. E mi son ritrovato a dover fare centinaia di ispezioni cadaveriche. Vivendo direttamente quel momento di grande dolore. Molte di queste cose mi tornano ancora in sogno, per me sono degli incubi”.

Tutti i passeggeri avevano pagato migliaia di dollari per uscire dall’Eritrea, arrivare in Libia e potersi imbarcare in direzione dell’Italia. L’eco mediatica della tragedia di Lampedusa fu enorme. Proprio a seguito del naufragio, l’Unione europea decise di incrementare le attività di ricerca e soccorso in mare. Il 24 ottobre l’allora sindaco dell’isola siciliana, Giusi Nicolini, fu ricevuta dal presidente del Parlamento europeo (all’epoca era il socialdemocratico Martin Schulz).

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Un pescatore di Lampedusa getta una corona di fiori in mare, a pochi giorni dalla strage di migranti del 3 ottobre 2013 © Tullio M. Puglia/Getty Images

Dal 18 ottobre, poi, l’Italia avviò l’operazione Mare Nostrum. Elicotteri, droni, unità d’altura, pattugliatori e fregate, per un anno, pattugliarono il tratto di mare tra Lampedusa e l’Africa. Furono impiegati tra i 700 e i mille militari. “È stato un gesto di grande civiltà da parte dell’Italia – ha osservato Bartolo – ma poi si è paradossalmente trasformato in qualcosa di negativo. Dal quel momento, infatti, i trafficanti di esseri umani hanno approfittato della presenza delle navi nei pressi della costa libica e hanno smesso di comprare e mettere a disposizione dei migranti le cosiddette “carrette del mare”, ovvero le imbarcazioni che avrebbero dovuto attraversare tutto il mar Mediterraneo e che arrivavano a costare decine di migliaia di euro”.

Le conseguenze della tragedia del 3 ottobre 2013

Al contrario, “i trafficanti iniziarono a comprare gommoni di fabbricazione cinese, che costano pochissimo e che affondano subito perché a volte non sono nemmeno dei gommoni, sono dei canotti gonfiabili monostadio senza chiglia con a bordo 100, 120 persone. Per cui basta un’onda o un foro per farli affondare. È così che, paradossalmente, sono aumentati i naufragi e sono aumentati i morti”.

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Un migrante sull’isola di Lampedusa, l’8 ottobre 2013 © Tullio M. Puglia/Getty Images

Negli anni successivi, si intensificherà anche la presenza delle navi delle organizzazioni non governative. Proprio con l’obiettivo di scongiurare stragi di questo tipo. È per questa ragione che le attività “Sar” (search and rescue) si concentrano il più possibile ai limiti delle acque territoriali della Libia. Tuttavia, la linea dura adottata nel 2018 dal governo italiano, con la chiusura dei porti alle imbarcazioni cariche di migranti salvati ha reso sempre più difficile il lavoro delle ong. La vicenda della Aquarius, costretta ad un lungo periplo prima di poter attraccare in Spagna, è stata in questo senso emblematica.

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I disegni dei bambini della scuola elementare di Lampedusa a pochi giorni dalla strage del 3 ottobre 2013 © Tullio M. Puglia/Getty Images

Oggi il numero di navi Sar delle associazioni nel Mediterraneo è ridotto al minimo. Il rischio è che eventi come quello del 3 ottobre 2013 possano riprodursi. Magari più lontani dalla costa. Magari proprio in questo istante. Senza che nessuno lo sappia.

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