Sono stati identificati 33 luoghi con migliaia di specie non ancora scoperte

I “darkspot” ospitano il maggior numero di specie non ancora scoperte, dove indirizzare gli sforzi di conservazione secondo un nuovo studio.

Dell’immensa biodiversità che esiste sul nostro Pianeta, ad oggi conosciamo 400mila specie di piante, descritte e nominate dalla scienza. Ma ce ne sono decine di migliaia (si stima più di 100mila) di cui ancora ignoriamo l’esistenza e, quindi, le loro caratteristiche ma soprattutto il loro stato di salute.

I darkspot, i luoghi con più specie ancora sconosciute

Ogni specie svolge un ruolo importantissimo per l’ecosistema, formando il grande mosaico biodiverso del Pianeta, da cui dipende il futuro di numerose altre specie, inclusa quella umana. Ma ogni giorno riceviamo notizie di specie minacciate, a rischio estinzione, e altre che vengono salutate per sempre. Per questo i Paesi di tutto il mondo stanno agendo per raggiungere gli obiettivi di conservazione e ripristino per contrastare la crisi degli ecosistemi in atto.

Le attività di conservazione e ripristino della biodiversità devono essere indirizzate per rendere gli sforzi efficaci © Brett Coomer/Houston Chronicle via Getty Images

Per fare conservazione bisogna sapere cosa proteggere, e soprattutto dove. Alcuni botanici del Royal botanical gardens di Kew, nel Regno Unito, hanno realizzato uno studio che identifica 33 luoghi in tutto il mondo dove si concentra il maggior numero di specie non ancora scoperte, conosciute come dark spot” o aree botaniche, che devono essere prioritarie nella ricerca di nuove specie degli scienziati.

“La ricerca ha l’obiettivo di aiutare a indirizzare la conservazione e accelerare la scoperta di nuove piante, perché alcune potrebbero estinguersi prima che la scienza le raggiunga”, ha affermato Alexandre Antonelli, uno degli autori dello studio e direttore scientifico del Kew garden. Considerando la quantità di specie ancora sconosciute, il 30 per cento della quali si pensa sia a rischio estinzione, è essenziale che gli sforzi di conservazione siano indirizzati correttamente.

Quello che non sappiamo ci aiuta a trovare quello di cui abbiamo bisogno

Queste aree botaniche sono state identificate partendo proprio dai limiti di conoscenza della scienza, dai dati mancanti. “Vogliamo affrontare la sfida di accelerare la descrizione e la mappatura della diversità vegetale valutando le carenze tassonomiche e geografiche”, si legge nello studio.

I botanici hanno identificato 33 darkspot:

  • 14 in Asia tropicale (Nuova Guinea, Vietnam, Myanmar, India, Assam, Filippine, Himalaya orientale, Borneo, Thailandia, Laos, Himalaya occidentale, Malacca, Bangladesh e Sumatra)
  • 8 in Sudamerica (Colombia, Perù, Ecuador, Sud-est del Brasile, Venezuela, Costa Rica, Panama e Bolivia)
  • 8 in Asia temperata (Cina centro-meridionale, Turchia, Iran, Cina sudorientale, Uzbekistan, Tagikistan, Afghanistan e Kazakistan)
  • 2 in Africa (Madagascar e Province del Capo)
  • 1 in Nordamerica (sudovest del Messico).

Di questi 33 darkspot o aree botaniche, la maggior parte si trova in quelli che già erano stati definiti hotspot di biodiversità, ovvero zone caratterizzate da grandissimi livelli di diversità biologica, che devono essere protette. Non tutti i Paesi che ospitano queste zone hanno le capacità (uno dei parametri dello studio erano proprio le condizioni socioeconomiche), o la velocità, di identificare questo enorme numero di specie, e di attuare da soli gli sforzi di conservazione. Per questo gli sforzi vanno indirizzati.

A fine mese, tra l’altro, i Paesi si troveranno alla Cop16, la sedicesima conferenza delle Nazioni Unite sulla biodiversità che si terrà in Colombia, proprio per valutare gli obiettivi posti nel 2022 per rallentare la perdita di biodiversità entro la fine di questo decennio. E quindi si torna all’obiettivo e all’intento di questo prezioso studio: “I paesi si sono accordati per preservare e ripristinare la biodiversità. Come possiamo farlo se non sappiamo di che specie stiamo parlando, se non sappiamo cosa sia questa biodiversità e dove possiamo ripristinarla?”. Questo studio offre un punto di partenza.

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