Roberta Redaelli, nel suo saggio Italy & Moda, raccoglie le voci del tessile. E invita il consumatore a fare scelte che lo spingano alla sostenibilità.
4sustainability guida le aziende di moda verso la sostenibilità
Il marchio di Process factory individua sei aree di intervento nel percorso della moda verso la sostenibilità. L’intervista alla fondatrice, Francesca Rulli.
Uno dei grandi meriti di 4sustainability è quello di aver trasformato la sostenibilità da costo, quale era e viene tuttora percepita, a leva strategica di sviluppo in grado di generare valore. Lo ha fatto definendo un percorso per le aziende tessili e del comparto moda che prevede la realizzazione di una o più iniziative che vadano nella direzione della sostenibilità. Creato nel 2014, 4sustainability è il marchio di Process factory che attesta l’adesione delle aziende del segmento fashion & luxury a tale roadmap, prevedendo anche un affiancamento di tipo operativo.
Le aree di intervento di 4sustainability
Al centro del lavoro di 4sustainability c’è la tutela dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori e un occhio di riguardo anche alla dimensione economica. In concreto, questo si traduce in iniziative strutturate con metodi e tecnologie a supporto che toccano sei aree di intervento, cioè la mappa ideale per un impatto a 360 gradi. Ad oggi, il protocollo conta circa 160 adesioni, tra imprese della filiera italiana e brand internazionali, ma con il coronavirus i numeri sono molto probabilmente destinati ad aumentare. Abbiamo intervistato Francesca Rulli, fondatrice di 4sustainability.
Come è nato 4sustainability?
L’idea nasce in un momento storico piuttosto complesso che sta vivendo la filiera moda e che riguarda gli ultimi dieci anni. Il mondo sta chiedendo alle aziende di diventare più sostenibili. Le domande dei consumatori sono le più disparate e sono richieste spesso disorganiche, a cui la filiera risponde in modo impreparato. Il grande assente qui è lo strumento di attuazione. Non basta affermare di voler avere prodotti biologici o di voler eliminare la chimica tossica e nociva da tutti i cicli produttivi. È una bellissima intenzione, visionaria e aderente ai Sustainable development goals delle Nazioni Unite, però poi come lo si fa, attraverso quali strumenti, in che modo lo si misura senza incorrere in greenwashing è qualcosa che negli anni passati era totalmente assente.
Oggi si comincia a vedere qualcosa di più strutturato e noi lì siamo andati a collocarci, partendo nel 2014 con l’idea di costruire un modello di implementazione per la filiera che piacesse ai brand. Volevamo far incontrare il brand e la filiera e quindi il prodotto con i suoi processi, il “cosa” con i suoi “come”, in un modello che si parla attraverso un linguaggio comune e riconoscibile. Veniamo da un periodo in cui la domanda che propone il brand non trova una risposta, perché il processo non è in grado di recepirla oppure non ci si capisce. 4sustainability è una modalità di implementazione che sottostà a un marchio ed è fatto di sei iniziative, sei progetti misurabili che sono le sei tematiche rilevanti dichiarate in aderenza agli Obiettivi di sviluppo sostenibile dalla Global fashion agenda.
Quali sono queste aree di intervento?
Chemical management è l’eliminazione delle sostanze tossiche e nocive dai cicli produttivi: noi adottiamo la metodologia globale Zdhc, “Zero discharge for hazardous chemicals”. Poi c’è Materials, cioè la conversione all’uso di materie prime sostenibili: mappiamo le materie prime utilizzate, per ogni tipologia cerchiamo la sua conversione in alternative sostenibili e la misuriamo. Recycle è lo sviluppo di pratiche di riuso che seguono il concetto di sustainable design, di riciclo, di sviluppo di protocolli di riuso, in sostanza di economia circolare; sono tutte procedure che permettono di ottimizzare l’uso dello scarto della produzione o dell’invenduto per farlo tornare a valore. Poi c’è People, che è la crescita del benessere organizzativo e della responsabilità sociale; l’obiettivo è quello di lavorare sui talenti, sul valore delle risorse, sul clima aziendale, sul creare produttività attraverso la risorsa uomo. Planet è un’iniziativa che punta a misurare il consumo di acqua, energia elettrica e CO2, cioè l’impatto ambientale della produzione, per andare a trovare logiche di riduzione. Infine c’è Trace, ovvero la corretta gestione degli impatti socio-ambientali dei processi interni e della filiera attraverso attività di valutazione, tracciamento, monitoraggio e miglioramento.
L’intervento è previsto solo su un’area o su tutte e sei?
Abbiamo creato uno strumento di diagnosi iniziale che le indaga tutte e sei per definire le priorità. Poi costruiamo una roadmap personalizzata che si basa su una valutazione di cosa si è già fatto, cosa si può fare con semplicità e cosa richiede un intervento più importante, in un asse temporale che di solito copre l’arco di tre anni. I vari step si raggiungono in base a ciò che è possibile, a ciò che è corretto per il mercato di riferimento e coerente con la strategia della singola impresa.
Su quali aree di intervento è richiesto maggiormente il vostro supporto?
Negli scorsi cinque anni molte aziende si sono concentrate in maniera sostanziale sull’eliminazione delle sostanze chimiche tossiche e nocive in produzione, perché grandi brand che fanno sourcing in Italia hanno spinto molto questo aspetto. Fare da cerniera tra brand e filiera vuol dire che noi assistiamo la filiera in questa implementazione, ma è nostro compito e anche nostro desiderio far sì che poi i marchi riconoscano questo sforzo nel loro modello di vendor rating, quindi nella scelta del fornitore. Poi c’è stata una grande richiesta per la conversione all’uso dei materiali a minor impatto ambientale, che implicano anche le certificazioni. Non meno importante è la tracciabilità dei processi e il monitoraggio della filiera su cui siamo continuamente impegnati, perché per fare tutte le cose di cui abbiamo parlato finora il presupposto fondamentale è avere un buon sistema di tracciabilità sia interna che presso i fornitori.
Tracciabilità e trasparenza della filiera, quali sono secondo te i metodi e gli strumenti più efficaci?
La mia opinione è che, ad oggi, i sistemi di tracciabilità siano veramente poveri. Fare tracciabilità per qualcuno vuol dire aver tracciato un prodotto della collezione, una capsule, aver fatto un elenco di una quota parte dei propri fornitori magari solo di primo anello. Non esiste uno standard di tracciabilità. So che oltre alle prime blockchain, molto costose e impattanti, si stanno trovando soluzioni più adeguate a trasferire concetti di sostenibilità. Il problema non è tanto lo strumento, ma il contenuto. Il concetto su cui tutti dovremmo lavorare è il contenuto: cioè definire una metodologia per cui quando parliamo di tracciabilità parliamo tutti la stessa lingua.
C’è qualche realtà o case study di cui vuoi parlare?
La maggior parte dei brand con cui lavoriamo appartengono al segmento del lusso perché fa tanto sourcing in Italia. Parlando di filiera c’è Achille Pinto, azienda comasca che è stata forse tra le prime a credere nella nostra metodologia; è un produttore di seta – ma non solo – che si è rivolto a noi per l’eliminazione delle sostanze tossiche e nocive, per migliorare la tracciabilità e per introdurre le materie prime sostenibili, ora sta avviando un progetto sul riciclo. Con Albini group, Eurojersey, Lanificio Cangioli e Successori Reda abbiamo lavorato su tracciabilità e chemical management; con Piacenza 1733 sempre sul chemical management e reporting. Poi c’è Manteco, azienda del distretto pratese, specializzata nel riciclo di materie prime preziose, soprattutto lana e cachemire, con cui abbiamo fatto un progetto sul chemical management, ma anche di reporting e di recycling, quindi di calcolo della riduzione di impatto ambientale generato dalla scelta dell’uso del riciclato attraverso la metodologia Lca. Ci sono moltissime altre aziende ad aver creduto nella nostra metodologia e nel processo di implementazione della roadmap. La caratteristica portante di tutte è il voler fare con metodo, senza fermarsi allo slogan, ma investendo in personale, metodologie, macchinari, innovazione.
C’è stato un aumento delle richieste con il coronavirus?
Assolutamente sì: nonostante il settore non se la stia passando per niente bene, c’è un’accelerazione fortissima sulla sostenibilità. I brand interessati al tema, anche quelli che fino ad oggi non l’avevano incluso nelle proprie strategie, stanno andando in quella direzione; chi era già partito sta accelerando il commitment, di conseguenza le filiere sono ancora più sensibilizzate all’implementazione.
Prima citavi le certificazioni: spesso si rivelano solo dei grandi giri di affari.
C’è un grandissimo limite dei modelli certificativi, che è quello di avere uno standard anche fatto molto bene, ma un controllo annuale una tantum e un sistema di controllo del controllore molto leggero. Quando si parla di paesi molto lontani da noi, come facciamo a sapere in che modo l’auditor ha condotto la verifica di una determinata fabbrica? Oppure capita che alcune aziende si preparino la settimana prima dell’arrivo dell’ispettore solo perché altrimenti hanno problemi con gli ordini e poi tornino a fare quello che si faceva prima: questo capita ovunque, nel mondo. È un meccanismo che noi reputiamo non idoneo ad assicurare una reale garanzia di sostenibilità, se non accompagnato da un vero impegno costante dell’azienda e da una misurazione attraverso dati.
Per questo, quando vendiamo un progetto lo vendiamo composto da tre parti: la formazione durante l’anno, la metodologia supportata da IT e il controllo delle performance. Essendo un modello molto faticoso e poco profittevole in termini di business, non mi aspetto di trovare tantissimi competitor nel mercato. Ci vuole una grande passione.
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