Il 12 dicembre 2015 l’allora ministro degli Esteri francese Laurent Fabius annunciò l’adozione definitiva del testo dell’Accordo di Parigi. Decretando la fine della ventunesima Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite, la Cop 21. Gli occhi del Pianeta erano puntati su di lui e sui componenti dell’assemblea plenaria che avevano appena limato gli ultimi dettagli del documento. Occhi pieni di speranza. Perché dal rispetto di quell’Accordo dipenderanno le sorti dei nostri figli e dei nostri nipoti.
Five years after the Paris accord was signed, climate campaigners call for more action to stop global warming pic.twitter.com/9TjMUsPTno
I passi indietro degli Stati Uniti di Donald Trump e del Brasile di Jair Bolsonaro
Ma qual è, a distanza di cinque anni, il bilancio delle azioni concrete promosse dai governi di tutto il mondo? La realtà è fatta di luci e ombre. Alcune nazioni si sono in effetti impegnate fortemente (a partire da quelle più vulnerabili di fronte alle conseguenze dei cambiamenti climatici). Altre lo hanno fatto meno, ma non hanno fatto mancare il loro apporto. Altre ancora hanno invece scelto di remare apertamente contro: è il caso del Brasile di Jair Bolsonaro e, soprattutto, degli Stati Uniti di Donald Trump (unica nazione ad essere uscita formalmente dall’Accordo di Parigi).
Va detto, però, che gli impegni sul clima erano insufficienti già all’epoca della Cop 21. In previsione della conferenza, infatti, le Nazioni Unite avevano chiesto ai governi di presentare dei documenti – chiamati Ndc (Nationally determined contributions) – all’interno dei quali ciascuno dettagliò i proprio piani di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra. Il problema è che la “somma” di quegli impegni non è neppure vagamente sufficiente a centrare il principale obiettivo dell’Accordo di Parigi, ovvero la limitazione della crescita della temperatura media globale ad un massimo di 2 gradi centigradi, entro la fine del secolo, rispetto ai livelli pre-industriali. Rimanendo, recita il testo, il più possibile vicini agli 1,5 gradi.
Le promesse ancora insufficienti dei governi
La conferma era arrivata già nel 2017, con un rapporto del Programma ambientale delle Nazioni Unite (Unep), intitolato Emission Gap. Secondo il quale la traiettoria figlia degli Ndc del 2015 porterebbe la temperatura media globale a 3,2 gradi. E se qualcuno si chiedesse cosa implicherà, concretamente, tale riscaldamento globale, la risposta è contenuta nello Special report 1.5 dell’Ipcc (il Gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici) che ha spiegato cosa cambierà tra 1,5 e non 3,2 ma “solo” 2 gradi. Un esempio tra i tanti rende l’idea: con 1,5 gradi l’ipotesi di un’estate con un oceano artico privo di ghiaccio (poiché interamente sciolto a causa del caldo) è calcolata come altamente improbabile, benché non impossibile: una volta ogni secolo. Mentre con 2 gradi il fenomeno si produrrebbe ogni decennio.
Il trend, d’altra parte, è inequivocabile. Dagli anni Settanta ad oggi, la temperatura media cresce di 0,2 gradi ogni decennio. Così, secondo il servizio europeo di monitoraggio climatico Copernicus, nei dodici mesi tra dicembre 2019 e novembre 2020, la temperatura media globale è risultata di 1,28 gradi centigradi più alta rispetto ai livelli pre-industriali.
Una speranza è tuttavia arrivata da un’analisi dell’organizzazione non governativa Carbon Action Tracker, secondo la quale – qualora tutte le nuove promesse (successive al 2015) avanzate dai paesi di tutto il mondo fossero rispettate per intero – si potrebbe limitare la crescita a 2,1 gradi. Va detto però che si tratta di uno scenario definito “ottimistico” dalla stessa associazione. Esso prende infatti in considerazione anche gli impegni a lunghissimo termine, come la volontà manifestata da parte della Cina di azzerare le proprie emissioni nette di CO2entro il 2060. L’analisi, inoltre, dà per scontato che anche le promesse avanzate solo in modo informale possano essere non solo trasformate in legge, ma anche mantenute per intero. È il caso del piano sul clima del futuro presidente degli Stati Uniti Joe Biden, che per ora è soltanto nel suo programma elettorale.
Per rispettare l’Accordo di Parigi non basta il calo delle emissioni provocato dalla pandemia
Al contrario, ad impegnarsi concretamente di fronte alla comunità internazionale per l’implementazione concreta dell’Accordo di Parigi, con il deposito formale di nuovi Ndc, sono stati solo pochi stati. Soprattutto quelli particolarmente vulnerabili, come Isole Marshall, Suriname, Zambia, Ruanda o ancora Tailandia. Da ultimo, la Gran Bretagna ha annunciato la volontà di ridurre le emissioni del 68 per cento, entro il 2030, rispetto ai livelli del 1990.
Ma la pandemia e il conseguente rinvio della Cop 26 di Glasgow (che si terrà nel novembre 2021) sembrano aver imposto un rallentamento al processo di lotta ai cambiamenti climatici. Proprio in occasione del quinto anniversario dell’Accordo di Parigi, l’Unep ha ricordato che – benché nel 2020 il coronavirus abbia fatto calare del 7 per cento le emissioni globali – ciò avrà un impatto marginale sul riscaldamento globale.
Eppure ciò che servirebbe è noto: ce l’hanno ripetuto per anni gli scienziati di tutto il mondo. E anche le tecnologie necessarie per raggiungere l’obiettivo sono ormai a disposizione e sufficientemente diffuse nel mondo. Ciò che non deve più mancare, è la volontà politica di avviare e sostenere una profonda transizione ecologica. Esattamente come richiesto dai movimenti giovanili che negli anni sono sorti per difendere l’Accordo di Parigi.
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