Le proteste antigovernative in Israele, l’attentato in Cisgiordania, i raid israeliani in Siria. Il Medio Oriente è una polveriera.
5 anni di guerra in Siria
Sono trascorsi cinque anni da quando è cominciata la guerra civile in Siria, che ormai civile non è più. In questo periodo di tempo i numeri sono sfuggiti di mano a molti e non ci sono cifre precise che riescano a far capire la portata del conflitto in corso tra forze governative, ribelli, gruppi terroristici
Sono trascorsi cinque anni da quando è cominciata la guerra civile in Siria, che ormai civile non è più. In questo periodo di tempo i numeri sono sfuggiti di mano a molti e non ci sono cifre precise che riescano a far capire la portata del conflitto in corso tra forze governative, ribelli, gruppi terroristici e forze armate straniere. Le Nazioni Unite parlano di 250mila morti e oltre un milione di feriti. Ma questi dati non sono aggiornati da mesi, ormai. Secondo il Syrian center for policy research, le vittime dirette o indirette sarebbero addirittura 470mila.
Dei 23 milioni di siriani che popolavano il paese prima dello scoppio della guerra, secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), 6,5 milioni hanno abbandonato le loro case diventando rifugiati interni, mentre 4,8 milioni hanno varcato il confine per raggiungere la Giordania, dove si trova uno dei campi profughi più grandi al mondo, la Turchia o il continente europeo.
La Giordania, in particolare, paga un prezzo altissimo per far fronte a questa emergenza, molto più alto di qualsiasi paese europeo. La Banca Mondiale stima che per far fronte ai bisogni dei 630mila rifugiati siriani presenti nel paese, il governo di Amman ha bisogno di 2,5 miliardi di dollari, l’anno. Pari al 6 per cento del pil e a un quarto delle entrate annue del paese.
L’Unicef, invece, afferma che circa 3,7 milioni di bambini siriani sono stati condizionati in qualche modo dalla guerra, dal “più mortale e complesso” conflitto del nostro tempo. Molti di questi bambini non hanno conosciuto nessun’altra vita se non quella condizionata dalla violenza. Per assisterli nell’insegnamento, nello sviluppo, nella sopravvivenza, sempre secondo l’Unicef, ci vorrebbero 1,4 miliardi di dollari.
Anche i siti patrimonio dell’umanità secondo l’Unesco soffrono per le violenze. Quasi tutti sono rimasti danneggiati o sono stati addirittura distrutti, inclusa la città di Aleppo, dove si trovavano alcuni dei castelli medievali meglio conservati al mondo, e il sito archeologico di Palmira, preso di mira dai terroristi dello Stato Islamico.
I segnali di speranza, seppure deboli, non mancano. Dalla mezzanotte di venerdì 26 febbraio è in vigore una tregua che per la prima volta in cinque anni sta dando la possibilità alla diplomazia di fare il suo lavoro e alle agenzie e alle organizzazioni umanitarie di soccorrere le vittime civili che da anni vivono sotto assedio, in condizioni disumane. Un risultato strappato grazie alla collaborazione tra Stati Uniti e Russia e alla mediazione dell’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria, Staffan de Mistura. La tregua, però, non coinvolge i protagonisti che hanno reso questa guerra asimmetrica e più violenta e difficile da gestire, cioè lo Stato Islamico e il Fronte Al Nusra, il gruppo armato affiliato ad Al Qaida in Siria.
Il presidente russo Vladimir Putin ha confermato la volontà di fare sul serio annunciando il ritiro, a partire dal 15 marzo, anniversario simbolico dell’inizio della guerra nel 2011, della maggior parte delle forze armate. Per facilitare il dialogo e la pace. Una decisione inattesa presa insieme al governo di Damasco, ancora sotto il controllo di Bashar al Assad, colui che, cinque anni fa, è stato il motivo dello scoppio della guerra.
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