Con una sentenza storica, la Cassazione conferma la condanna per il comandante italiano che ha consegnato 101 migranti alla Libia.
50 foto che hanno cambiato il mondo dei diritti umani
Ci sono pro e contro, nel pubblicare immagini controverse come queste 50 foto. Alcuni le condivideranno coi loro social per dar visibilità al problema, altri non vorranno rovinare la giornata ai loro follower. Alcuni diranno che feriscono la sensibilità di chi le vede, altri che è l’unico modo con cui raggiungere il mondo intero. Ad
Ci sono pro e contro, nel pubblicare immagini controverse come queste 50 foto. Alcuni le condivideranno coi loro social per dar visibilità al problema, altri non vorranno rovinare la giornata ai loro follower. Alcuni diranno che feriscono la sensibilità di chi le vede, altri che è l’unico modo con cui raggiungere il mondo intero.
Ad ogni modo, il dibattito è aperto e il mondo continuerà a nutrirci di immagini che tutti vedremo in un modo o nell’altro. Si può solo provare a mostrare tutta la realtà perché solo la conoscenza dei fatti permette di avere un’opinione. Il primo passo per risolvere un problema è esporlo.
Leggi anche: Il 10 dicembre è la Giornata mondiale per i diritti umani
Diritti umani: 50 foto che hanno cambiato il mondo
Dopo la pubblicazione di fotografie forti come quella di un bambino riverso sul bagnasciuga di una spiaggia turca, di un orso polare scheletrico che agonizza nel villaggio Inuit abbandonato, di un bimbo che arranca verso il cibo con dietro un avvoltoio, succede sempre qualcosa. Il merito di queste foto è di far sembrare vicini, più vicini che mai, problemi lontani, inerenti ai diritti umani. LifeGate raccoglie qui alcuni roboanti esempi di fotografie che hanno generato un forte effetto. Che hanno cambiato le cose, veramente.
1904, Edward S. Curtis. I Navajo che stanno scomparendo
Nord America, 1904. Navajo a cavallo. “The Vanishing Race”, foto su gelatina di Edward S. Curtis.
1908, Lewis Hine. Bambine in un cotonificio
Il National Child Labor Committee americano dà l’incarico di fotografare la situazione dei tanti bambini sfruttati, e molto spesso maltrattati, in tutti gli Stati Uniti a un sociologo, insegnante e fotografo di New York, Lewis Hine.
Le fotografie di Hine (che poi visse gli ultimi anni della sua vita in uno stato di estrema povertà) hanno contribuito a scuotere la coscienza della nazione americana, e a cambiare le leggi sul lavoro minorile.
1930, Lawrence Beitler. Il linciaggio di Thomas Shipp e Abraham Smith
La foto risale al 7 agosto 1930, quando a Marion nell’Indiana due uomini neri, Thomas Shipp e Abraham Smith, accusati di aver ucciso un bianco e stuprato la fidanzata (accusa poi dimostratasi falsa) vengono linciati da una folla che poi si sofferma compiaciuta e soddisfatta a rimirare il risultato finale dello scempio. Uno fa capolino, due fidanzati si tengono per mano, un altro indica la scena soddisfatto. L’autore della foto è Lawrence Beitler.
Già dopo la nascita dell’organizzazione razzista Ku Klux Klan, nel 1865, i linciaggi dei neri aumentarono in America: si stima che tra il 1880 e il 1920 ci siano stati mediamente due linciaggi pubblici a settimana (secondo un rapporto che prende in esame l’arco di tempo 1889-1930, delle decine di migliaia di perpetratori soltanto 49 vennero accusati e 4 condannati). Alcuni anni dopo, nel 1937, Abel Meeropol, un insegnante ebreo membro del Partito Comunista americano, vede la foto e scrive il poema “Strange fruit”, pubblicato su una rivista marxista. Lo riesce a far leggere a Billie Holiday dopo averla sentita cantare in un locale. Lei, con la collaborazione di Sonny White, ne fa una canzone dallo stesso titolo che scala le classifiche del 1939 e viene denigrata dal Time Magazine che la etichetta come un pezzo musicale di propaganda per il National Association for the Advancement of Coloured People.
1936, Dorothea Lange. Madre migrante
Dorothea Lange svolgeva da anni un’opera di ricognizione tra i disoccupati, i senzatetto e i migranti della California e dal 1935 la Rural Resettlement Administration, organismo federale di monitoraggio della crisi economica, aveva commissionato a lei e ad altri grandi fotografi come Walker Evans una serie di indagini e di reportage. Nel marzo del 1936, dopo aver terminato un’inchiesta sui braccianti agricoli della periferia di Los Angeles, mentre attraversa la Highway 101 vede un cartello che segnala un campo di raccoglitori di piselli (il titolo originale, infatti, è “Destitute Pea Picker”) a Hoboken, nel New Jersey. Il raccolto era andato perso e non c’era più lavoro, né scampo, per i raccoglitori senza dimora; così la trentaduenne Florence Thompson, ritratta nella foto, era lì a vendere le ruote della sua auto per comprare il cibo. Dopo che la Lange avrà avvisato le autorità della situazione di emergenza delle persone nell’accampamento, saranno mandati viveri e aiuti pubblici nella zona. Delle 160.000 immagini scattate dalla Lange e da altri fotografi, questa è senza dubbio la più iconica della Grande Depressione.
1936, Jesse Owens sul podio di Berlino
Velocista e lunghista statunitense, è passato alla storia per la sua partecipazione ai Giochi olimpici nella Berlino nazista del 1936, dove vince quattro medaglie d’oro e diventa la stella dei Giochi. Il 3 agosto vince i 100 metri, il 4 agosto il salto in lungo, il 5 agosto i 200 metri e il 9 agosto la staffetta 4×100.
Nel 1976 viene insignito del collare d’argento dell’Ordine Olimpico per la sua sfida al razzismo e premiato con la Medaglia presidenziale della libertà, il massimo titolo per un civile americano. Consegnandogliela, il presidente repubblicano degli Stati Uniti Gerald Ford dice: “Owens ha superato le barriere del razzismo, della segregazione e del bigottismo mostrando al mondo che un afroamericano appartiene al mondo dell’atletica”.
1937, H.S. Wong, Shanghai
“Sabato di sangue” (血腥 的 星期六) è il titolo dato a una fotografia in bianco e nero pubblicata nel settembre-ottobre 1937 e che in meno di un mese viene vista da oltre 136 milioni di lettori. Raffigura un bambino cinese che piange tra le rovine bombardate della stazione ferroviaria di Shanghai. La fotografia è diventata un’icona culturale che mostra le atrocità della guerra giapponese in Cina. È stata scattata pochi minuti dopo un attacco aereo giapponese sui civili durante la Battaglia di Shanghai. Il fotografo della Hearst Corporation H.S. “Newsreel” Wong, noto anche come Wong Hai-Sheng o Wang Xiaoting, non ha svelato l’identità o il sesso del bambino ferito, la cui madre giaceva morta vicino. È una delle fotografie di guerra più memorabili mai pubblicate, che mostra clamorosamente e dolorosamente le vittime civili dei conflitti.
1939, l’ultima ghigliottina pubblica in Francia
Una delle ultime immagini della pena di morte nei Paesi occidentali. È il 17 giugno 1939 quando, dopo aver sparato alla nuca a cinque persone, il criminale tedesco Eugen Weidmann viene decapitato mediante ghigliottina a Versailles, appena fuori della prigione di Saint-Pierre. La morbosità con cui i mezzi di informazione documentano le fasi dell’esecuzione causa indignazione anche al di fuori della Francia, e il “comportamento isterico” degli spettatori è così scandaloso che il Primo ministro Edouard Daladier bandisce immediatamente tutte le future esecuzioni pubbliche. Le esecuzioni per mezzo della ghigliottina in Francia sono continuate quasi di nascosto, all’interno del carcere del condannato, fino al 10 settembre 1977, quando Hamida Djandoubi è stata l’ultima persona giustiziata.
1943, rivolta nel ghetto di Varsavia
Ebrei catturati dalle truppe tedesche durante la rivolta del ghetto di Varsavia tra l’aprile e il maggio del 1943, tra cui un bambino con le mani alzate. Questa fotografia, di cui non si conosce l’autore, appare nel Rapporto Stroop, un album composto dal Generale Maggiore delle SS Juergen Stroop, comandante delle forze tedesche che soppressero la rivolta del ghetto di Varsavia. L’album viene presentato come prova al Tribunale Militare Internazionale di Norimberga. Nei decenni successivi la foto diventa una delle immagini più emblematiche dell’Olocausto.
1950, Elliott Erwitt: differenza fra rubinetti in North Carolina
Anche un bagno pubblico può raccontare un pezzo di storia moderna se di fronte a quei due rubinetti c’è l’obiettivo di un fotografo che in tutta la sua carriera ha saputo congelare con ironia e sarcasmo le contraddizioni del mondo. Il fotografo si chiama Elliott Erwitt e diventerà un gigante, e la fotografia si intitola “North Carolina, 1950”. L’allora ventiduenne Erwitt è in viaggio per andare a trovare un amico. Si ferma in un bagno pubblico e si trova davanti a una triste evidenza. Non ha nessun incarico da parte di qualche giornale o rivista, ma decide ugualmente di documentare quella vistosa, emblematica contraddizione. Fa epoca. Utilizza l’arma della semplicità e della pulizia per far risaltare ancora di più il paradosso. “Lo stesso tubo, la stessa acqua, una però è raffreddata e l’altra no. Un erogatore è moderno, l’altro è vecchio e scrostato” racconterà poi il fotografo, a sessant’anni dallo scatto.
1955, Rosa Parks avvia lo sciopero degli autobus
Il 1º dicembre 1955, a Montgomery, in Alabama, Rosa Parks sta tornando a casa in autobus dal suo lavoro di sarta. Nella vettura, non trovando altri posti liberi, occupa il primo posto dietro alla fila riservata ai soli bianchi, nel settore dei posti comuni. Dopo tre fermate, l’autista le chiede di alzarsi e spostarsi in fondo all’automezzo per cedere il posto a un passeggero bianco salito dopo di lei. Lei, mantenendo un atteggiamento calmo, sommesso e dignitoso, rifiuta di lasciare il posto. Viene arrestata e incarcerata. Quella notte, cinquanta leader della comunità afroamericana, guidati dal pastore protestante Martin Luther King, si riuniscono per decidere le azioni da intraprendere mentre già in città avvengono disordini violenti. Il giorno successivo incomincia il boicottaggio dei mezzi pubblici di Montgomery, protesta che durerà per 381 giorni. L’anno dopo il caso Parks arriva alla Corte Suprema degli Stati Uniti che decreta, all’unanimità, incostituzionale la segregazione sui pullman pubblici dell’Alabama. Da quel momento, Rosa Parks diventa un’icona del movimento per i diritti civili. L’autobus è ora esposto all’Henry Ford Museum a Dearborn, negli Stati Uniti.
1956, Francis Miller. Pet therapy ante litteram
Nel novembre 1956 la rivista Life pubblica un articolo dal titolo ingannevolmente spensierato, “Gli animali rendono un ospedale felice”. Notando che i bambini, in particolare, sono più consapevoli di quanto sia deprimente essere in un ospedale, l’Università di Michigan ad Ann Arbor organizza uno spettacolo di animali continuativo che si dimostra apprezzatissimo dai 3.000 bambini che passano ogni anno dalle sue corsie. Oggi, naturalmente, la terapia assistita da animali è comune negli ospedali, nelle case di cura, nelle cliniche per la riabilitazione e in altri luoghi dove il dolore e la solitudine che spesso accompagnano la malattia – e lo stress associato al recupero da infortuni o malattie – possono essere quasi paralizzanti.
Didascalia di Life originale: “Il sollievo nel letto per Peggy Kennedy di 3 anni è fornito da anatroccoli che nuotano nella vasca. Peggy è una vittima della poliomielite e indossa un respiratore in plastica”.
1957, Will Counts. Elizabeth Eckford seguita da una folla inferocita
Elizabeth Eckford è stata una delle prime allieve di colore della Central High School, affrontando l’odio e la discriminazione della comunità bianca nel sud degli Stati Uniti. Si vede nella foto una ragazza bianca – aveva solo 15 anni, ma tutti la pensano sempre più vecchia – che le urla addosso, contro la scolara nera vestita col suo vestito bello, perfettamente bianco, gli occhi nascosti dietro gli occhiali da sole, stringendo i libri e camminando stoicamente intorno alla Little Rock Central High School il 4 settembre 1957. I Little Rock Nine sono il gruppo di nove studenti afroamericani iscritti alla Little Rock Central High School a Little Rock, Arkansas, nel 1957. Elizabeth Eckford qualche attimo prima aveva cercato di entrare a scuola, solo per essere respinta addirittura dai soldati della Guardia nazionale dell’Arkansas collocati lì dal governatore Orval Faubus. Con una folla alle calcagna, allora, torna indietro, e si fa strada verso la fermata dell’autobus a un isolato di distanza.
1961, Peter Leibing e il soldato che scappa dal comunismo
È il 13 agosto 1961 e Berlino pullula di divise: nell’Est da giorni si raccolgono truppe. Metri e metri di filo spinato vengono srotolati e mattone su mattone il muro di Berlino prende forma.
In quell’angolo al posto di blocco tra Bernauer e Ruppiner Strasse, il giovane sottufficiale Conrad Schumann è stato assegnato alla sorveglianza di quel confine ancora da costruire e dal mattino presto pattuglia il lato della strada che dà in faccia ai nuovi nemici, fino a ieri suoi concittadini. Davanti a lui, a pochi metri, la barriera. Lo nota Peter Leibing, collaboratore di un quotidiano di Amburgo spedito nella capitale non appena la notizia della costruzione del muro ha cominciato a circolare. Fotocamera in mano, è appostato da ore su quel tratto della Bernauer Strasse.
Il giorno successivo al salto di Schumann, nella Berlino Est, si parla di fuga, tradimento, diserzione; per il soldato viene emesso un mandato di cattura. Nell’Ovest invece la macchina mediatica gli cuce addosso le vesti dell’eroe coraggioso che ha scelto la libertà: giornali e radio si contendono il giovane rifugiato per interviste e dichiarazioni, la foto del suo salto diventa l’emblema della lotta all’oppressione sovietica. E in mezzo a queste due correnti c’è non un eroe, non un traditore, ma un ragazzo di diciannove anni, che appena arrivato alla centrale di polizia nel settore occidentale la prima cosa che ha chiesto è stata un panino con la salsiccia.
1963, “I have a dream” di Martin Luther King
Un celebre ritratto del predicatore nero durante l’agosto 1963, quando Martin Luther King pronuncia il suo celebre discorso “I have a dream”, davanti al Lincoln Memorial di Washington. È il 28 agosto 1963, al termine di una marcia di protesta per i diritti civili, nota come la marcia su Washington per il lavoro e la libertà: in esso esprimeva la speranza che un giorno la popolazione di colore avrebbe goduto degli stessi diritti dei bianchi. Questo discorso è sicuramente uno dei più famosi del ventesimo secolo, e diventa simbolo della lotta contro il razzismo negli Stati Uniti. Siamo durante la presidenza di John Fitzgerald Kennedy.
1963, Malcolm Browne. Il monaco Thích Quảng Ðức si dà fuoco
Thích Quảng Ðức è il monaco buddhista vietnamita che si dà fuoco in una piazza di Saigon nel 1963 per protestare contro l’amministrazione del presidente del Vietnam del Sud, il cattolico Ngô Đình Diệm, e la sua politica di oppressione della religione buddhista. Il suo gesto diviene celebre in tutto il mondo grazie alla fotografia della sua immolazione, scattata da Malcolm Browne, che gli è valsa il premio World Press Photo of the Year per il 1963 e il Pulitzer nel 1964. Pare che tra le ceneri sia stato ritrovato il suo cuore intatto, cosa che ha convinto i buddhisti del valore della sua compassione e da allora è venerato come bodhisattva.
1967, Marc Hutten e le foto del cadavere del Che
Foto del Che Guevara dopo la sua morte, alcune delle quali inedite, scattate da Marc Hutten – il corrispondente della France Presse che fu l’unico giornalista a documentare l’uccisione del rivoluzionario argentino – sono state ritrovate trent’anni dopo in una scatola di sigari da Imanol Arteaga, il nipote di un sacerdote spagnolo ex missionario in Bolivia, a cui il fotografo affidò copie delle sue immagini, temendo di non poterle portare fuori dal paese.
1967, Kathrine Switzer è la prima donna a correre una maratona
Alle donne non era permesso correre la maratona perché temevano che potesse cadergli l’utero. Fino a metà anni ’60. Alla maratona di Boston del 1967 Kathrine Switzer si iscrive come un neutro “K. V. Switzer”, indossa abiti abbondanti e si presenta a ritirare il pettorale facendo finta di prenderlo a nome di un familiare maschio. Inizia la gara col suo pettorale… Prima di essere notata dai funzionari della corsa. Il direttore di gara, Jock Semple, furioso, la rincorre, la afferra per la felpa e cerca di trascinarla fuori dalla strada, urlando “Và all’inferno fuori dalla mia corsa”, ma Kathrine Switzer lo scansa e riesce a completare la maratona, mentre i giornali in tutto il mondo pubblicano le foto della schermaglia.
Successivamente Kathrine va anche a vincere la maratona di New York nel 1974. Dedica la sua vita (ora è settantenne) a incoraggiare le donne a seguire le sue orme con l’associazione 261 Fearless, e ritorna spesso ancora a correre lì, a Boston, teatro di quella simbolica vittoria.
1968, il saluto del ‘black power’ di Tommie Smith e John Carlos alle Olimpiadi
Oggi è una delle immagini più famose del Novecento. I pugni alzati, i guanti neri (simbolo del black power), i piedi scalzi (segno di povertà), la testa bassa e una collanina di piccole pietre al collo (“ogni pietra è un nero che si batteva per i diritti ed è stato linciato”). L’hanno fatto i due atleti afroamericani Tommie Smith e John Carlos durante la cerimonia di premiazione alle Olimpiadi estive del 1968 nello Stadio Olimpico di Città del Messico. Dopo aver vinto le medaglie d’oro e di bronzo nei 200 metri salgono sul podio per ascoltare l’inno nazionale americano e tengono sollevato un pugno guantato di nero fino alla fine dell’inno.
Smith e Carlos fanno parte dell’Olympic Project for Human Rights (“Perché dovremmo correre in Messico solo per strisciare a casa?” era scritto sul manifesto di quegli atleti) e decidono di correre alle Olimpiadi nonostante il 4 aprile di quell’anno Martin Luther King fosse stato assassinato (e molti altri atleti avessero deciso di non partecipare). Tommie Smith arriva primo (stabilendo il nuovo record mondiale dei 200 metri), Carlos terzo.
Il saluto a pugno chiuso è considerato come una delle affermazioni più apertamente politiche nella storia dei giochi olimpici moderni. Nella sua autobiografia, “Silent Gesture”, Smith afferma che il gesto non era un saluto “black power”, ma un “saluto per i diritti umani”.
1968, Eddie Adams. Esecuzione a Saigon del prigioniero vietcong
Il “Generale Nguyễn Ngọc Loan mentre giustizia un prigioniero vietcong a Saigon” è il titolo di questa fotografia scattata da Eddie Adams il 1º febbraio 1968 che mostra il capo della Polizia Nazionale del Vietnam Nguyễn Ngọc Loan giustiziare l’ufficiale vietcong Nguyễn Văn Lém durante l’Offensiva del Têt, il capodanno buddhista. La fotografia di Adams mostra il momento in cui il proiettile viene sparato; il morto, con la bocca contratta in una smorfia ed i capelli ancora mossi dallo sparo, non ha ancora cominciato a cadere. Il fatto venne immortalato anche da un cameraman della Nbc ma è la fotografia di Adams ad imprimersi nella memoria collettiva, perché fa il giro del mondo sulle prime pagine di tutti i giornali.La fotografia di Adams vince il premio Pulitzer nel 1969 e il World Press Photo of the Year 1969. Altre fotografie scattate da Eddie Adams ai profughi della guerra vietnamiti, a donne e bambini, aiuteranno a persuadere il presidente statunitense Jimmy Carter della necessità di offrire asilo ai 200.000 vietnamiti che cercavano di fuggire dal paese su barche e barconi. Anche il generale Nguyễn Ngọc Loan è andato in America: ha vissuto a New York come pizzaiolo.
1970, John Filo. La sparatoria della Kent State
Mary Ann Vecchio urla il suo dolore accanto al corpo senza vita dello studente Jeffrey Miller, durante gli scontri nel campus universitario tra studenti e la Guardia Nazionale. Quest’immagine di una giovane donna che piange sopra il corpo di uno studente morto vince il premio Pulitzer. La Guardia nazionale dell’Ohio incredibilmente apre il fuoco contro la folla, riunita in protesta per l’invio di truppe in Cambogia ordinato dal presidente Richard Nixon. Il fatto ispirerà anche il cantante Neil Young nel comporre la canzone “Ohio”.
1972, Nick Ut. Il terrore del napalm
Nel giugno del 1972 i soldati statunitensi avevano cominciato da tempo il graduale ritiro dal Vietnam meridionale, ma i combattimenti con le forze del nord comunista erano molto intensi in diverse zone. L’8 giugno un gruppo di cacciabombardieri dell’aviazione sudvietnamita attaccò con le bombe al napalm il paesino di Trang Bang vicino al confine con la Cambogia (quaranta chilometri a nordovest di Saigon), dove si combatteva da diversi giorni. Kim Phúc, una bambina di 9 anni che viveva a Trang Bang con la sua famiglia, si nascondeva da tre giorni nel tempio Cao Dai. Le bombe al napalm cominciano a cadere sull’edificio. Per errore, i cacciabombardieri stavano sganciando le bombe incendiarie sulle posizioni dei soldati sudvietnamiti! Il suo braccio sinistro prende immediatamente fuoco, il suo vestito si distrugge in pochi secondi. Il fotografo dell’Associated Press Huynh Cong “Nick” Ut scatta l’immagine dei bambini lungo la Route 1, vicino a soldati sudvietnamiti della 25esima divisione. Poco dopo, la bambina perse conoscenza. Ut, che allora aveva 21 anni e che aveva perso un fratello, anche lui fotografo, mentre era in servizio per l’Associated Press nel delta del Mekong meridionale, trasportò la bambina in auto a un piccolo ospedale. Chi prese la decisione di diffondere la foto – contrariamente agli stretti regolamenti dell’AP che vietavano di diffondere foto di nudi, a maggior ragione di una bambina nuda – fu Horst Faas, capo area dei fotografi dell’Associated Press, premio Pulitzer nel 1965 per le sue foto dal Vietnam e poi in quello stesso anno, nel 1972, per un reportage in Bangladesh. Faas, che visse a Saigon fino al 1974 e che è morto lo scorso 11 maggio a 79 anni, decise anche la diffusione di un’altra delle immagini più famose della guerra in Vietnam: quella che mostra il generale della polizia di Saigon, Nguyen Ngoc Loan, sparare alla testa di un prigioniero vietcong.
La foto viene pubblicata in molti dei principali quotidiani statunitensi – in prima pagina sul New York Times del 9 giugno – e fa molta impressione nell’opinione pubblica. I giornali raccontano anche il seguito della sua storia e come Kim Phúc sopravvisse all’attacco tanto che negli anni successivi si arrivò a dire, esagerando, che potesse aver contribuito a far finire la guerra. Con quest’immagine Ut vince un premio Pulitzer nel 1973.
1977, Adriana Vestido. Le madri di Plaza de Mayo
Durante la dittatura militare della Guerra sporca tra il 1976 e il 1983, le madri argentine vedevano “sparire” i propri figli. Le madri di Plaza de Mayo sono l’organizzazione delle donne che vogliono sapere cosa è successo ai loro figli. Queste donne sono state la prima risposta ai tentativi dei governi di mettere a tacere l’opposizione. Le madri di Plaza de Mayo (in spagnolo Asociación Madres de Plaza de Mayo) è una associazione formata dalle madri dei desaparecidos, ossia i dissidenti scomparsi durante la dittatura militare in Argentina tra il 1976 e il 1983. Il loro emblema, un fazzoletto bianco annodato sulla testa, è il simbolo di protesta che in origine era costituito dal primo pannolino, di tela, utilizzato per i loro figli neonati. Il loro nome è originato dal nome della celebre piazza di Buenos Aires, Plaza de Mayo, dove queste donne coraggiose si riunirono per la prima volta.
Le madri hanno iniziato la loro marcia di fronte al palazzo presidenziale il 30 aprile 1977. Azucena Villaflor de De Vincenti venne in seguito arrestata e detenuta in una delle prigioni segrete dell’ESMA a partire dal 10 dicembre 1977.
1980, l’uccisione di Oscar Arnulfo Romero
L’arcivescovo Oscar Arnulfo Romero, prelato di El Salvador, è stato assassinato il 24 marzo 1980 da sicari di destra, inviati dal generale Roberto D’Aubuisson, mentre celebra la messa, per aver denunciato in chiesa e con la radio emittente della diocesi le violazioni di diritti umani che subivano le popolazioni più vulnerabili.
La sua figura è stata reputata di tale importanza che nel 2010 l’Onu, nella ricorrenza della data della sua morte, ha istituito la Giornata mondiale del diritto alla verità su gravi violazioni dei diritti umani e alla dignità delle vittime. L’obiettivo della giornata è quello di onorare la memoria delle vittime delle gravi violazioni dei diritti umani perpetuate in tutto il mondo e promuovere l’importanza del diritto alla verità e alla giustizia. Il 24 marzo vengono commemorati tutti coloro che hanno dedicato la vita alla battaglia per la protezione dei diritti umani, versando il loro sangue per rendere il nostro pianeta un po’ più equo.
1980, Michael Wells, Uganda
Con questo scatto il fotografo Michael Wells vince il premio come “Miglior foto giornalistica dell’anno 1980”, il World Press Photo of the Year. Lo scatto ritrae solo la mano di un bambino denutrito che è poggiata su quella che successivamente si saprà essere di un missionario. Lo stesso autore dello scatto disse di “vergognarsi di aver vinto un premio tanto prestigioso con una fotografia che mostra fame e povertà”.
1984, Steve McCurry: La ragazza afgana
La vera identità di questa ragazza rimase sconosciuta sino al 2002, ma sin dal momento dello scatto il volto di Sharbat Gula diventa una delle copertine più iconiche del National Geographic di tutti i tempi, forse la più celebre di sempre.
1985, Dominique Aubert: il bambino soldato
Lo scatto di Dominique Aubert riprende un bambino soldato in Uganda, a Kampala, che imbraccia un Kalashnikov. L’entità del problema dei bambini soldato esploderà di lì a poco, fino a raggiungere livelli parossistici con lo scandalo di Joseph Kony, esploso grazie al video Kony 2012 dell’Ong americana Invisible Children. Caratteristiche del Lord Resistance Army sono le atrocità commesse durante i conflitti nell’Africa centrale, in particolare il sistematico ricorso al rapimento di bambini al fine di arruolarli come soldati o costringerli a prostituirsi. Metodologie che sono valse a Kony e ad altri quattro esponenti del movimento l’accusa di crimini di guerra e contro l’umanità da parte della Corte penale internazionale e che hanno fatto del leader ribelle uno degli uomini più ricercati al mondo. Dal momento della sua nascita, il Lra ha rappresentato un vero e proprio incubo per le popolazioni dell’intera regione; in primis per gli stessi Acholi, che, restii a riprendere le armi dopo la sconfitta di Lakwena, si sono di fatto ritrovati allo stesso tempo vittime della brutalità dell’esercito di Kony e di quella, non meno spregiudicata, delle truppe governative. Il Lra si è così distaccato dall’agenda politica Acholi, divenendo una macchina da guerra con l’unico obiettivo di alimentarsi attraverso il ricorso alla violenza. Il conflitto si è inoltre sviluppato in quattro Stati (Uganda, Sudan, Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centrafricana), ed è stato alimentato dalle dinamiche geopolitiche regionali.
1988, Nelson Mandela in prigione
Dei suoi 95 anni di vita, Nelson Mandela ne ha passati quasi un terzo, 27 anni, nelle carceri del regime razzista dell’apartheid. Il periodo più lungo e duro, 18 anni, lo ha vissuto a Robben Island, un’isoletta davanti a Cape Town. Poi ha trascorso sei anni nel carcere di massima sicurezza di Pollsmoor, dove instaura le basi del dialogo con il regime. L’ultimo è nella prigione modello di Victor Vester.
Mandela viene imprigionato nel 1964, condannato all’ergastolo perché ritenuto colpevole di sabotaggio e alto tradimento. Madiba passa i primi cinque anni a spaccare pietre nel cortile. Poi, per 13 anni, a scavare in una cava di calce o a raccogliere alghe fra gli scogli.
Nel corso degli anni vengono imprigionati altri dirigenti delle organizzazioni antiapartheid, e il carcere diviene anche luogo di discussioni politiche. Dall’esterno giungono le notizie della crescente solidarietà internazionale, della resistenza che riprende forza. Dal 1977 le condizioni migliorano, il lavoro forzato abolito e a Mandela viene permesso di coltivare un suo orto. Nel dicembre 1988, Mandela viene trasferito a Victor Verster, sempre vicino a Cape Town: ora la sua prigione è un cottage fra gli alberi, con cuoco e piscina. All’arrivo, il ministro della Giustizia Kobie Coetsee gli porta una cassa di vino.
Il suo ultimo periodo di detenzione, lo ricorderà come “gabbia dorata”. Incontra personalmente Botha, poi Frederik W. De Klerk, che nel 1989 gli subentra alla presidenza. De Klerk a ottobre annuncia la liberazione di Sisulu e degli altri principali dirigenti dell’Anc. L’11 febbraio 1990, con la revoca delle leggi di segregazione razziale in Sudafrica, l’eroe della lotta antiapartheid esce da Victor Vester con una mano stretta a quella della moglie Winnie, l’altra alzata a pugno, mentre cammina tra una folla di fotografi e di sostenitori.
1989, l’uomo del carro armato di piazza Tienanmen
Il “rivoltoso sconosciuto” (in inglese Unknown Rebel o “tank man”, cioè uomo del carro armato; in Cina conosciuto come 王維林 Wang Weilin) è un ragazzo cinese divenuto famoso durante le proteste a Pechino per essersi parato davanti a una fila di carri armati per fermarli.
È un ragazzo di cui non si conosce né l’identità, né il destino, filmato e fotografato durante la protesta di piazza Tienanmen il 5 giugno 1989. Gli sono state scattate diverse fotografie mentre è in piedi di fronte ai carri armati Tipo 59 del governo cinese, sbarrandogli il passo. L’immagine più diffusa dell’evento è questa, scattata dal fotografo Jeff Widener (Associated Press) dal sesto piano dell’hotel di Pechino, lontano all’incirca 800 metri. Un’altra versione è quella del fotografo Stuart Franklin della Magnum Photos. La sua inquadratura è più vasta rispetto a quella di Widener, e mostra più carri armati di fronte al ragazzo. Nel 2003 è stata inserita nella rubrica “Le 100 foto che hanno cambiato il mondo” della rivista Life. I video mostrano anche i goffi tentativi dei carri armati di fare retromarcia, di aggirarlo. E lui che, spostandosi di un passo, li blocca di nuovo.
1990, Aung San Suu Kyi
Le elezioni si sono tenute in Birmania, oggi il Myanmar, il 27 maggio 1990, le prime elezioni multipartitiche dal 1960 dopo le quali il paese era stato governato da una dittatura militare. Le elezioni non erano destinate a formare un governo parlamentare, ma piuttosto a formare una sorta di parlamento costituente, per redigere una nuova costituzione. Le elezioni sono state vinte in modo convincente del partito di Aung San Suu Kyi, che prende 392 dei 492 seggi. Tuttavia, la giunta militare rifiuta di riconoscere i risultati, invalida il verdetto popolare e Aung San Suu Kyi viene messa agli arresti domiciliari, confinata nella sua casa di Rangoon, senza possibilità di alcun contatto esterno. Per tutto il tempo in cui verrà privata della libertà, l’azione coraggiosa e instancabile della dissidente birmana sarà sempre più incisiva e determinata riuscendo a mantenere viva l’attenzione dell’Occidente verso il suo paese. Nel 1991 per la sua lotta nonviolenta riceve il premio Nobel per la pace, ma non può lasciare la Birmania per ritirarlo. Lo farà per lei uno dei suoi due figli. Tenta due volte di sfuggire al controllo dei militari, viene bloccata a pochi chilometri dalla capitale e lei per protesta resta chiusa nella sua auto per nove giorni, prima di decidere di tornare nella casa-prigione.
1990, Therese Frare, la faccia dell’Aids
David Kirby muore circondato dalla sua famiglia. Ma la fotografia di Therese Frare del trentaduenne sul letto di morte ha fatto ben altro che catturare il momento straziante. Ha umanizzato l’Aids, la malattia che ha ucciso Kirby, in un momento in cui devastava le vittime fuori dalle luci della ribalta. La fotografia di Frare, pubblicata su Life nel 1990, ha mostrato come la malattia ampiamente fraintesa abbia effetti devastanti ben più che solo sulle sue vittime. Sarebbe passato un altro anno prima che il nastrino rosso diventasse un simbolo di compassione e resilienza. Foto inclusa da Time come una delle 100 più influenti.
1992, James Nachtwey, carestia in Somalia
Anche questa è inclusa da Time come una delle 100 foto più influenti. James Nachtwey non riesce a ottenere nessun incarico da riviste americane nel 1992 per documentare la spirale della carestia in Somalia. Mogadiscio era inghiottita dai conflitti armati mentre i prezzi del cibo salivano vertiginosamente e l’assistenza internazionale non riusciva a tenere il passo. Eppure pochi in Occidente stavano notando molto. Così il fotografo americano decide di andare da solo in Somalia, dove riceve il sostegno del Comitato Internazionale della Croce Rossa. Nachtwey riporta un mucchio di immagini inquietanti, tra cui la scena di una donna in attesa di essere portata in un centro di alimentazione accoccolata in una carriola. Dopo che è stata pubblicata sulla copertina del New York Times Magazine, i lettori cominciano a inondare le redazioni di lettere. Il mondo, allo stesso modo, si commuove. La Croce Rossa dichiara che il sostegno pubblico scatenato da quella foto ha avuto una portata tale da potersi considerare la sua più grande operazione dalla seconda guerra mondiale. Un milione e mezzo di persone sono state salvate, ha detto al Times Jean-Daniel Tauxe, della Croce Rossa, e “le foto di James hanno fatto la differenza”.
1992, Bosnia, Ron Haviv
Può volerci del tempo affinché anche le immagini più scioccanti possano avere un loro effetto. La guerra in Bosnia non era ancora iniziata quando l’americano Ron Haviv scatta questa foto di un serbo che prende a calci una donna musulmana che era stata colpita dalle forze serbe. Haviv era riuscito a embeddarsi alle Tigri di Arkan, una brutale milizia nazionalista che però lo aveva avvertito di non fotografare alcun omicidio. Ma Haviv, determinato a documentare la crudeltà a cui stava assistendo, in una frazione di secondo decide di rischiare. Time gli pubblica questa foto una settimana dopo, e l’immagine di un odio così immotivato innesca un dibattito vorticoso sulla risposta internazionale al conflitto in peggioramento. La guerra sarebbe continuata per più di tre anni. Haviv – inserito nella lista di obiettivi da uccidere dal leader delle Tigri, Zeljko Raznatovic, o Arkan – inizialmente è frustrato dalla reazione pubblica, che ritiene, all’epoca, tiepida. Quasi 100.000 persone hanno perso la vita nel conflitto nei Balcani. Prima del suo assassinio nel 2000, Arkan viene incriminato per crimini contro l’umanità a L’Aia. Le immagini di Haviv vengono usate come prova contro di lui e altri perpetratori di ciò che, alla fine fu chiaro, divenne noto come pulizia etnica.
1993, Kevin Carter. Bambino e avvoltoio
Kevin Carter conosceva già il fetore della morte. Come membro del Bang-Bang Club, un quartetto di coraggiosi fotografi che hanno raccontato il Sudafrica dell’apartheid, aveva visto più di una cosa dolorosa. Nel 1993 vola in Sudan per fotografare la carestia che sta devastando quella terra. Esausto dopo una giornata trascorsa a fotografare nel villaggio di Ayod, si dirige verso la boscaglia aperta. Lì sente dei lamenti e si imbatte in un bambino emaciato, collassato sulla strada verso un centro di distribuzione di cibo dell’Onu. Mentre scattava la foto del bambino, un avvoltoio atterra nelle vicinanze. Secondo quanto riferito, Carter era stato avvertito di non toccare le vittime a causa delle malattie trasmissibili, quindi, invece di aiutarlo, passato 20 minuti ad aspettare nella speranza che l’uccello volasse via. Non l’ha fatto. Carter prova a spaventarlo, osservando mentre il bambino arrancava verso il centro. Poi accende una sigaretta, prega, e piange. Il New York Times pubblica la foto e i lettori s’infervorano, sia per scoprire cosa fosse successo al bambino, sia per criticare Carter per non aver aiutato il suo soggetto. La sua immagine diviene rapidamente un caso di studio straziante nel dibattito su quando i fotografi devono o non devono intervenire. Ricerche successive sembrano rivelare che il bambino sia sopravvissuto, morendo però 14 anni dopo per febbre malarica. Carter vince un Pulitzer per la sua immagine, ma l’oscurità di quel giorno luminoso non si è mai risollevata da lui. Nel luglio del 1994 si toglie la vita, scrivendo: “Sono ossessionato da vividi ricordi di uccisioni e cadaveri, rabbia e dolore”.
1994, James Nachtwey. Genocidio in Ruanda
Questa fotografia è stata scattata in Ruanda, durante il genocidio operato dalle forze militari. L’uomo è della tribù degli hutu, e in seguito è stato liberato.
Nel 1994, l’inimicizia tribale tra hutu e tutsi viene artatamente, politicamente manipolata fino a raggiungere una fase critica. Tra 500.000 e 1 milione di persone si uccidono nel giro di tre mesi con attrezzi agricoli come armi, con machete o mezzi rudimentali. Gli omicidi vengono commessi faccia a faccia, vicino contro vicino, e talvolta anche fratello contro fratello. Il numero riportato più spesso è 800.000 morti. Difficile oggi immaginare 800.000 persone con la testa sfondata da attrezzi di pietra, impalati su lance, violati a morte con zappe e machete – in soli tre mesi.
Fino al 4 marzo 2018 a Palazzo Reale, a Milano, sarà in corso la mostra Memoria, sulla carriera di James Nachtwey, uno dei più importanti fotografi di guerra contemporanei. Raccoglie duecento immagini divise in 17 sezioni sui suoi ultimi 35 anni di lavoro: fotografie che ha scattato a Gaza, El Salvador, Indonesia, Giappone, Romania, Somalia, Sudan, Iraq, Afghanistan, Filippine, sul genocidio in Ruanda e il giorno dell’attentato dell’11 settembre negli Stati Uniti, fino alla crisi dei migranti in Europa. Nachtwey, che compirà 70 anni il prossimo marzo, è uno dei fotografi di guerra contemporanei più importanti e conosciuti.
1999, Carol Guzy. Rifugiati del Kosovo
La vincitrice del Premio Pulitzer del Washington Post per l’anno 2000, “I rifugiati del Kosovo” di Carol Guzy, è stata tra le fotografie reputate più impressionanti nelle mostre dell’epoca in America. Studiando il quadro e guardando negli occhi del bambino, si capisce perché ha vinto. Il notevole uso di elementi visivi contribuisce a definire il messaggio e il contenuto emotivo dietro la fotografia e permette allo spettatore di connettersi con il ragazzino che lottava tra le recinzioni. Tutti elementi veri, e simbolici nel contempo. Un altro esempio di una foto che racconta moltissime storie, illustrando moltissime realtà, in un solo scatto. La guerra del Kosovo è stata un conflitto armato, tra il 1996 ed il 1999, riguardante lo status del Kosovo, allora compreso nell’Unione delle Repubbliche di Serbia e Montenegro. Una delle più vicine crisi politiche e di migranti, rispetto a noi, qui in Italia.
2000, Karol Wojtyla. La Chiesa chiede scusa per le violazioni dei diritti umani nella storia
Le guerre di religione. Gli scismi. Le persecuzioni contro gli ebrei. Il sostegno al colonialismo, alla discriminazione etnica e sessuale, la quiescenza contro le ingiustizie sociali. Per tutte queste colpe storiche Giovanni Paolo II ha voluto la “giornata del perdono e della riconciliazione” con caparbietà. Sfidando persino le resistenze di alcuni ambienti del Vaticano. Ha chiesto pubblicamente perdono domenica 12 marzo 2000, ed è stato il più grande mea culpa della Chiesa. Il Pontefice, per una delle cerimonie più importanti del Giubileo, ha passato al setaccio 2000 anni di cristianità. E ha chiesto scusa per gli sbagli dei suoi predecessori. L’intolleranza alle violenze, l’Inquisizione, le Crociate. Poi gli errori che hanno minato l’unità dei cristiani: le scomuniche, le persecuzioni religiose e i numerosi scismi di questi due millenni. L’altra grande questione è quella dell’antisemitismo. Il Pontefice ha chiesto il perdono anche per il trattamento riservato alle donne e alle altre etnie. Infine, “mea culpa” per i peccati commessi contro la giustizia sociale: “Nel corso della storia – aveva detto il Papa già nel 1985 – uomini appartenenti a nazioni cristiane purtroppo non sempre si sono comportati ispirandosi al Buon samaritano”.
2003, Jean-Marc Bouju: Un prigioniero ed il figlio
È una foto dell’avvenimento dell’anno, la guerra in Iraq, a vincere il World Press Photo 2003, il premio di fotografia assegnato ogni anno ad Amsterdam ai migliori scatti del mondo, di cronaca e costume. L’immagine mostra un prigioniero di guerra iracheno, con il volto mascherato e con in braccio il figlioletto di 4 anni: è stata realizzata dal fotografo francese dell’Associated Press Jean-Marc Bouju. L’immagine vincitrice, scattata il 31 marzo 2003 a Najaf, è stata selezionata tra oltre 63.000 scatti inviati da 4.176 fotografi. L’81% delle foto partecipanti, e tra queste quella vincitrice, sono state scattate da apparecchi digitali. Il francese Bouju, all’epoca 42enne, trascorre 9 settimane in Iraq tra marzo e maggio. È aggregato con la 101esima divisione aviotrasportata dell’esercito americano.Bouju ha già vinto premi Pulitzer per il suo lavoro in Africa nel ’95 e nel ’99. La foto, racconta il fotografo, vuole mostrare uno dei rari momenti di umanità in una zona di guerra, quando a un padre catturato dalle forze Usa è stato permesso di tenere con sé il suo bambino di 4 anni, anche lui prelevato dai soldati insieme al papà. Bouju però non è riuscito a capire il nome dell’uomo né sa dove siano finiti lui e il bambino.
2004, Carolyn Cole: Risposta al fuoco a Monrovia
Premio Pulitzer anche per questa foto di un soldato governativo che difende un ponte nel centro di Monrovia dove uno scontro tra ribelli ed esercito tiene la città in stato d’assedio. Fa parte della stessa serie un altro celebre scatto, con piedi di persone in sandali che camminano su un tappeto di bossoli di mitragliatrice esplosi.
La Seconda Guerra Civile Liberiana era iniziata nel 1999 quando un gruppo ribelle sostenuto dal governo della vicina Guinea, i Liberiani uniti per la riconciliazione e la democrazia (Lurd), si aggrega nel nord della Liberia. All’inizio del 2003, un secondo gruppo ribelle, il Movimento per la democrazia in Liberia, si coagula nel sud e, nel giugno-luglio 2003, il governo di Charles Taylor controlla solo un terzo del paese.
La capitale Monrovia viene assediata dal Lurd, e il bombardamento della città provoca la morte di molti civili. Migliaia di persone vengono private delle loro case. L’Accra Comprehensive Peace Agreement è stato firmato dalle parti in conflitto il 18 agosto 2003 e segna la fine politica del conflitto e l’inizio della transizione del paese verso la democrazia, con un governo di transizione guidato ad interim da Gyude Bryant fino alle elezioni, libere, del 2005.
2004, immagini di torture nella prigione di Abu Ghraib
L’abuso e l’umiliazione dei prigionieri iracheni da parte di soldati americani. Il prigioniero come trofeo. C’è anche lo scatto di un sergente donna che trascina un uomo nudo al guinzaglio. È una prigione situata nell’omonima città di Abu Ghraib (Abū Ghurayb, Iraq) a 32 km a ovest di Baghdad. Lì avvengono una serie di violazioni dei diritti umani contro detenuti iracheni da parte di personale dell’esercito degli Stati Uniti e della Cia, durante la guerra iniziata nel marzo 2003. Violazioni che includono abusi fisici e sessuali, torture, stupri, sodomizzazioni e omicidi. Gli abusi arrivano all’attenzione del mondo con la pubblicazione di fotografie delle violenze da parte di Cbs News nell’aprile del 2004. Gli episodi ricevono una condanna generale sia negli Usa che all’estero, benché i soldati coinvolti abbiano anche ricevuto sostegno da alcuni media conservatori.
2007, Brent Stirton: Senkwekwe
Senkwekwe pesava quasi 250 kg quando la sua carcassa, legata a una barella improvvisata, viene issata da più di una dozzina di uomini. Brent Stirton immortala la scena mentre è nel Parco Nazionale Virunga nella Repubblica Democratica del Congo. Lui e molti altri gorilla sono stati uccisi mentre un violento conflitto civile inghiottiva le zone del parco, dove vivono la metà dei gorilla di montagna al mondo, già in critico pericolo di estinzione. Mentre Stirton fotografa i residenti e i ranger del parco che trasportano rispettosamente Senkwekwe fuori dalla foresta nel 2007, il parco è assediato dai boscaioli che raccolgono illegalmente legna per un’industria di carbone installata dopo l’epoca del genocidio ruandese. Nella foto, la salma di Senkwekwe sembra enorme ma vagamente umana, un promemoria del fatto che nel conflitto in Africa centrale non solo gli uomini sono vittime del suo fuoco incrociato, ma anche l’ambiente, la foresta, e tutti i suoi abitanti animali. Tre mesi dopo la pubblicazione della fotografia di Stirton su Newsweek, nove Paesi africani – tra cui il Congo – firmano un trattato legalmente vincolante per proteggere i gorilla di montagna a Virunga.
2007, Oded Bality: Volontà è potenza
Questa immagine è valsa a Oded Bality il premio Pulitzer. Mostra una signora che cerca di difendere i suoi averi contro le truppe di sicurezza israeliane che stavano espellendo coloni da un villaggio in Cisgiordania.
2010, Anja Niedringhaus: Soldati in Afghanistan e un pollo
Un soldato canadese del 1° RCR Battle Group, il Royal Canadian Regiment, insegue un pollo pochi secondi prima che lui e la sua unità siano attaccati da granate sparate contro le trincee durante un pattugliamento a Salavat, a sud-ovest di Kandahar, in Afghanistan, l’11 settembre 2010. La foto, oltre a documentare un momento tra il drammatico, il grottesco e lo stupido, è significativa perché l’autrice dello scatto è Anja Niedringhaus che il 4 aprile 2014 è rimasta vittima di un attentato, proprio lì, alla vigilia delle elezioni presidenziali afghane. Fotoreporter tedesca, ha sempre lavorato per l’Associated Press ed è stata l’unica donna fra gli 11 fotografi dell’Ap ad aver vinto nel 2005 il Premio Pulitzer per la fotografia come giornalista di guerra in Iraq. Nello stesso anno ha vinto il Courage in Journalism Award dalla International Women’s Media Foundation. La Niedringhaus era in Afghanistan da diversi anni.
2011, Goran Tomasevic: soldato del Sud Sudan in riga nella cerimonia d’indipendenza
Il volto di questo soldato è come scolpito, inciso, scavato del presentimento della fatica e della sofferenza a venire, al di là dell’indipendenza. È un soldato dell’esercito del Movimento di Liberazione del Popolo del Sudan per l’indipendenza del Sudan del Sud (Spla) in riga durante un’esercitazione in vista della cerimonia del giorno dell’indipendenza a Juba, il 5 luglio 2011. L’Atlantic l’ha scelta come foto di copertina per il servizio South Sudan: The Newest Nation in the World. Il Sud Sudan ha dichiarato la propria indipendenza dopo un referendum nel gennaio 2011, quando quasi 4 milioni di sudanesi del Sud hanno votato per la secessione dal Sudan, con una quota superiore al 98 per cento dei votanti. Un plebiscito. Ma la regione è dilaniata da guerre civili da almeno 50 anni, e il nuovo Sud Sudan partiva già con lotte intestine tra diversi gruppi armati all’interno dei suoi nuovi confini. Molte questioni irrisolte son sfociate in crisi: la regione, ricca di petrolio, è costretta a fare affidamento sui gasdotti che attraversano il Sudan e gli accordi di ripartizione del gettito sono problematici. La nuova nazione, che comprende più di 200 gruppi etnici, ha un’economia prevalentemente rurale, e la fame, la carestia, la siccità, la povertà, la guerra civile e l’instabilità politica sono sempre le più grandi criticità. C’entra, ovviamente, il petrolio, dato che i peggiori attriti sono intorno ai pozzi petroliferi di Heglig.
2014, Mads Nissen: coppia gay di San Pietroburgo durante un momento di intimità
San Pietroburgo, Russia, 18 maggio 2014. Jon, 21 anni e Alex, 25 anni, sono una coppia gay. In Russia la vita per le persone Lgbt è particolarmente difficile a causa delle discriminazioni, dei crimini legati all’odio e degli attacchi dei gruppi conservatori e nazionalisti. Questo scatto di Mads Nissen, danese, ha vinto il primo premio del World Press Photo 2014. Nissen lavora per Time, Newsweek, Spiegel e Stern.
2014, Winnie Harlow
Winnie Harlow è una modella e attivista canadese (vero nome Chantelle Brown-Young). Di origini giamaicane, all’età di quattro anni le è stata diagnosticata la vitiligine, una condizione cronica caratterizzata da una depigmentazione di porzioni di pelle. È stata vittima di bullismo da parte di altri bambini, insultata al punto da dover cambiare scuola, poi abbandonarla, fino ad arrivare all’idea del suicidio. Scoperta da da Tyra Banks su Instagram, ha posato come modella per il marchio di abbigliamento spagnolo Desigual divenendo la ragazza immagine del loro marchio. Nel settembre 2014 ha sfilato per Ashish alla Settimana della moda di Londra. Ha posato per riviste di moda come I-D e Dazed e come modella per il marchio di abbigliamento italiano Diesel.
2014, Tara Moore: la nuova immagine delle donne secondo Getty
L’agenzia fotografica americana Getty Images ha lanciato lunedì 10 febbraio 2014 la collezione Lean In Collection in collaborazione con l’organizzazione non governativa Lean In guidata dalla direttrice operativa di Facebook, Sheryl Sandberg.
Con oltre 2.500 fotografie a disposizione e con la promessa di aggiungerne di nuove ogni mese, lo scopo di questa nuova iniziativa della maggior agenzia fotografica mondiale è scardinare lo stereotipo di come le donne vengono rappresentate sul web. Sorridenti, che mangiano l’insalata poco vestite sul divano o che digitano sulla tastiera di un laptop di ultima generazione sdraiate sul letto, in posizioni decisamente poco comode.
2015, Tomas Munita: la vita dei Rohingya
Oma Salema, 12 anni, tiene in braccio il fratello denutrito Ayub Khan, di un anno, in un campo per Rohingya a Sittwe, in Myanmar. Circa 140.000 Rohingya vivono qui in file di fragili capanne di bambù senza elettricità. Le acque luride passano attraverso canali di drenaggio in cemento e i bambini sono comunemente denutriti. Questa foto fa parte di un reportage fatto per il New York Times. Dal 2012, quando la violenza scoppiata tra musulmani e comunità buddiste e folle buddiste ha dato fuoco alle case dei Rohingya, il governo ha iniziato a radunare decine di migliaia di rohingya da Sittwe e altre città e villaggi nel campo, un’area di poche miglia quadrate.
2015, Nilüfer Demil: il corpo senza vita di un bambino migrante su una spiaggia in Turchia
L’orrore della tragedia umana che si sta svolgendo sulle coste dell’Europa è riesploso nel settembre 2015 quando le immagini del corpo senza vita di un bimbo – uno degli almeno 12 siriani annegati che tentavano di raggiungere l’isola greca di Kos – hanno mostrato i rischi straordinari che i rifugiati corrono per raggiungere l’Occidente. La foto raffigura il bambino dai capelli scuri, con indosso una magliettina rossa brillante e pantaloncini, riverso su una spiaggia, sdraiato a faccia in giù nel bagnasciuga, non lontano dalla località turistica turca di Bodrum.
La famiglia stava cercando di raggiungere il Canada. Una seconda immagine ritrae questo stesso poliziotto che, mestamente, raccoglie in braccio il piccolo corpo. Nel giro di poche ore diventa virale su Twitter sotto l’hashtag #KiyiyaVuranInsanlik (l’umanità riversa a riva). I media turchi hanno identificato il ragazzo come Alan Kurdi di tre anni e hanno riferito che anche il suo fratello di cinque anni ha avuto una morte simile. Entrambi, secondo quanto riferito, scappavano dalla città di Kobani, nel nord della Siria, sede di aspri combattimenti tra insorti dello stato islamico e forze curde dall’inizio dell’anno.
2016, Warren Richardson: speranza per una nuova vita
Il tema dei profughi siriani è protagonista anche della foto vincitrice del World Press Photo 2016. Una foto scattata dall’australiano Warren Richardson che denuncia l’esodo dei profughi siriani ha vinto il concorso fotografico con l’immagine presa difficoltosamente di un padre e un neonato che tentano di superare un filo spinato che funge da confine materiale tra due stati, l’Ungheria e la Serbia. Il titolo dice tutto. È stata scattata il 28 agosto 2015. Se a questo si aggiunge che la nazionalità dell’uomo e del piccolo è siriana, si capisce anche il valore aggiunto che ha portato alla premiazione del fotografo australiano Warren Richardson che denuncia la terribile condizione dei migranti – non solo siriani – nel 2015.
2016, Josh Haner: Kiribati sommersa, i muri crollano
Un ragazzo gioca tra i tondini di ferro del cemento armato di un muro che, a Kiribati, avevano provato a costruire per contenere l’innalzamento del livello dei mari, che sta sommergendo le loro isole inesorabilmente. Siamo nel febbraio 2015 a Betio, nel sud di Tarawa. È dal 2011 che i rappresentanti dell’Alliance of Small Island States (Aosis), ovvero degli stati isola presenti nel Pacifico come nei Caraibi, hanno unito le loro voci per protestare, ma soprattutto per chiedere aiuto alle Nazioni Unite e ai paesi industrializzati. Per cosa? Per sostenerli negli sforzi volti a contenere i danni dei cambiamenti climatici. In particolare degli uragani, sempre più forti e frequenti, e dell’innalzamento del livello dei mari, già in atto. Va ricordato che, secondo le previsioni dell’Ipcc, entro fine secolo i mari dovrebbero crescere anche di quasi un metro.
2017, Paul Nicklen: l’orso polare morente nel villaggio abbandonato degli Inuit
Questo toccante reportage video e fotografico di Paul Nicklen, realizzato nell’isola di Baffin nel mare Glaciale Artico nell’estate del 2017, mostra l’impossibile sopravvivenza degli orsi polari nell’era del riscaldamento globale. Un tema anche geopolitico, che tocca anche ovviamente le popolazioni umane: difatti, l’orso si aggira, nelle sue ultime ricognizioni prima di morire, in un villaggio abbandonato dagli Inuit perché diventato inospitale. Un messaggio attualissimo e concreto: gli sconvolgimenti climatici non colpiscono solo gli orsi polari, colpiscono le popolazioni lontane, colpiranno tutti noi.
Siamo anche su WhatsApp. Segui il canale ufficiale LifeGate per restare aggiornata, aggiornato sulle ultime notizie e sulle nostre attività.
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.
Numerose ong hanno sottolineato la situazione drammatica della popolazione palestinese a Gaza, chiedendo a Israele di rispettare il diritto umanitario.
Vida Diba, mente di Radical voice, ci parla della genesi della mostra che, grazie all’arte, racconta cosa significhi davvero la libertà. Ed esserne prive.
L’agenzia delle Nazioni Unite per la salute sessuale e riproduttiva (Unfpa) e il gruppo Prada hanno lanciato un programma di formazione per le donne africane.
Amnesty International ha pubblicato un manifesto elettorale in 10 punti rivolto ai partiti italiani: “I diritti umani non sono mai controversi”.
Si tratta di Zahra Seddiqi Hamedani ed Elham Choubdar colpevoli, secondo un tribunale, di aver promosso la “diffusione della corruzione sulla terra”.
Dal 2 al 4 settembre Emergency ricorderà che la pace è una scelta realmente perseguibile a partire dalla conoscenza e dalla pratica dei diritti umani.
Il Comune di Milano lo faceva già ma smise, attendendo una legge nazionale che ancora non c’è. Non si può più rimandare: si riparte per garantire diritti.
Le persone transgender hanno ora il diritto alla piena autodeterminazione a Milano grazie al primo registro di genere in Italia.