L’8 marzo non è la festa delle donne: è la Giornata internazionale dei diritti delle donne. Che siano mamme, “childfree” o “childless”, parliamo dell’universalità dei diritti, compresi quelli sessuali e riproduttivi.
In Italia siamo in “inverno demografico”: i nuovi nati nel 2022 sono ai minimi storici. Pesano la scarsità dei servizi a sostegno della genitorialità e la precarietà in cui versano moltissime donne
Donne con figli, donne che non vogliono figli e donne che non possono averli: il ruolo di madre è ancora un’impostazione predefinita che classifica il genere femminile. E che, in ogni caso, lo penalizza
Le differenze di genere riguardano anche la genitorialità: per le mamme il congedo obbligatorio di maternità dura cinque mesi, per i papà il congedo di paternità obbligatorio è di soli dieci giorni
Ogni 8 marzo, nel mondo, la forse totalità delle donne riceve gli auguri per la giornata a loro “dedicata”. Vengono regalate mimose e le chat di gruppo vengono invase della stessa pianta ma sotto forma di gif. Nei casi più fortunati, ad essere inoltrata è invece l’iconica foto di Rosie la rivettatrice, simbolo della forza lavoro femminile durante la Seconda guerra mondiale. Di quel manifesto americano, rimane ancora attuale e denso di significati diversi lo slogan We can do it.
Ad oggi, nel 2024, tra le tante tematiche su cui riflettere è doveroso concentrarci sull’uguaglianza di genere e sull’universalità dei diritti delle donne, compresi i diritti sessuali e riproduttivi. Perché troppe volte ancora una donna viene classificata in relazione al suo essere madre, quasi fosse un’impostazione di default.
Ma quindi, quando lo fai un figlio?
Dalla pubblicazione dell’ultimo rapporto Istat “Natalità e fecondità della popolazione residente”, il tema delle culle vuote e del destino (traballante) del sistema pensionistico nazionale ha conquistato rilevanza prioritaria. Non che prima non l’avesse, sia chiaro. Ma da quando è stato messo nero su bianco che il numero dei nuovi nati nel 2022 è sceso ai minimi storici, 393mila, mai così pochi dall’unità d’Italia, ci si è cominciati a fare delle domande.
Perché non si fanno più figli? E soprattutto perché, a questa domanda, sembra implicito che a rispondere debbano essere le donne?
No, l’8 marzo non è la festa delle donne: è la Giornata internazionale dei diritti delle donne. Che siano mamme, “childfree”, ossia senza figli per scelta, o “childless”, ossia senza figli ma perché impossibilitati a farli. Spoiler: nessuna di esse responsabili del calo di nascite italiano.
Guarda che poi te ne penti ed è troppo tardi
Tralasciando le battaglie sul diritto all’aborto del 1970 ancora non concluse, perché nonostante la legge 194 consenta alla donna di ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza in una struttura pubblica è ancora difficile farlo, considerati i medici obiettori di coscienza e i pochi centri di Ivg disponibili, potremmo dire che siamo in un anno in cui le donne stanno cominciando sempre più a svincolarsi dai sensi di colpa e da quell’impostazione predefinita che le vede madri per nascita.
Si chiamano “childfree” e, per quanto rivoluzionario possa sembrare, semplicemente sono persone, specialmente donne in età fertile, che non vogliono avere figli per svariate ragioni, dall’ambizioni professionali all’incertezza economica o anche climatica del futuro. Tutti motivi ugualmente validi e non discutibili, soprattutto. E che fanno da contraltare ad una cultura che vorrebbe la maternità fosse una fase obbligatoria della vita di ogni donna, quasi un obiettivo da realizzare entro i giusti tempi.
Qualcosa di diametralmente opposto a chi magari i figli li vorrebbe, ma è impossibilitato a farli: sono i “childless”, situazioni di cui ancora si parla troppo poco e con ancora troppa vergogna, anche se l’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità, stima che al mondo soffra di infertilità una persona su sei.
Secondo uno studio delle demografe Eva Beaujouan e Caroline Berghammer, in Italia il “fertility gap”, ossia il divario tra figli desiderati e figli concepiti, è più ampio che in altri Paesi ed è maggiore tra le donne con un alto livello di istruzione. Inoltre, le differenze riscontrate suggeriscono che a modellare gli obiettivi di fertilità delle donne siano fattori come le norme sulla genitorialità e le politiche di welfare aziendale per conciliare lavoro e famiglia.
Ma sei sicura di riuscire a conciliare lavoro e figli?
Ecco un’altra domanda destinata quasi esclusivamente al genere femminile, soprattutto quando si parla di mamme lavoratrici. Quelle che Save The Children nel suo ultimo rapporto sulla maternità in Italia chiama “equilibriste”, a cavallo tra due vite: quella dentro le mura domestiche, in un contesto in cui ancora scarseggia una giusta redistribuzione dei carichi di cura familiare tra i partner, e quello dentro le mura aziendali, in cui spesso la donna subisce demansionamenti e mobbing al rientro dalla maternità. Un “lose-lose”, insomma.
Today is #InternationalWomensDay It’s time to address inequalities in the health and care workforce.
We need policies that promote gender equality: 🟣 Legislate equal pay 🟣 Prevent harassment 🟣 Encourage flexible working arrangements 🟣 Ensure paid parental leave and… pic.twitter.com/j5WGnt3Opu
— World Health Organization (WHO) (@WHO) March 8, 2024
Nel 2024, una mamma non dovrebbe essere ancora vittima della grande domanda esistenziale su come coniugare lavoro e famiglia. Eppure, anche in questo caso i dati parlano chiaro: secondo il settimo rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale, il tasso di occupazione delle donne con figli è pari al 58,6 per cento, mentre quello degli uomini con figli all’89,3 per cento.
In situazioni di difficoltà poi, a pesare ulteriormente sulle scelte familiari è il gender pay gap, ossia la differenza di genere nella retribuzione che penalizza ancora le donne. Se in una coppia è necessario che uno dei due genitori rinunci al lavoro, molto spesso la scelta ricade sulle donne proprio perché guadagnano meno rispetto agli uomini. E infatti nel 2022 le dimissioni e le risoluzioni consensuali dal lavoro relative a genitori con figli sino a un anno di età hanno coinvolto 44,7 mila madri contro 16,7 mila padri.
Alla fine del 2023 solamente a Roma, evidenzia la Cgil regionale su Repubblica, il 58 per cento delle donne tra i 35 e i 39 anni che non lavora e non cerca un impiego lo fa per “motivi familiari”. Tra gli uomini, invece, questa percentuale cala all’otto per cento. E le mamme che un lavoro riescono a tenerselo, invece, sono comunque le più precarie, visto che il part time involontario colpisce quasi una lavoratrice sue due.
La strada per una genitorialità sostenibile passa per la parità di genere
Alle discriminazioni lavorative che colpiscono su più livelli le donne e le mamme, si aggiunge un contesto culturale che assegna ancora al genere femminile il peso quasi totale della cura familiare.
Questo è ancora più evidente se guardiamo alle donne con figli: in Italia per le mamme il congedo obbligatorio di maternità dura cinque mesi, pre e post parto, è retribuito all’ottanta per cento da parte dell’Inps e può essere esteso al cento per cento con il contributo facoltativo dell’azienda. Per i papà invece il congedo di paternità obbligatorio è di soli dieci giorni, peraltro non per forza consecutivi e retribuiti al cento per cento.
Eppure di esempi virtuosi di parità tra mamme e papà ne abbiamo in Europa: Svezia, Norvegia e Finlandia garantiscono da tempo congedi parentali in egual misura ad entrambi i genitori. E di recente (nel 2021) la vicina Spagna ha esteso il congedo a quattro mesi sia per i padri che per le madri, retribuiti al cento per cento e soprattutto non trasferibili.
È evidente come per far fronte a questo lungo inverno demografico non occorra trasformare la maternità in qualcosa di “cool”, come ha auspicato su La7 la parlamentare di Fratelli D’Italia Lavinia Mennuni, scatenando un dibattito politico e social non indifferente, quanto piuttosto occorra trasformare la genitorialità in un percorso sostenibile, che passi per la parità di genere. E non è un caso che quello del gender equality sia uno degli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’Onu da centrare nei prossimi anni.
Verso un’educazione collettiva
Per sostenere la genitorialità occorre dunque intervenire su più livelli, dal sostegno economico al potenziamento dei servizi di prima infanzia. C’è bisogno di più posti nei nidi pubblici e di rette meno care nei nidi privati, come sottolinea Altroconsumo, che ha evidenziato come il costo medio di una retta in una struttura privata sia di 620 euro mensili.
Secondo gli ultimi dati Istat elaborati dalla Cgil, infatti, in Italia ci sono solo 350 mila posti in asili nido e servizi integrativi per la prima infanzia, pubblici o privati. Dunque, solo il 28 per cento dei bambini e bambine, ovvero poco più di uno su quattro, può usufruirne mentre novecento mila bambini e bambine ne sono ancora esclusi. Dati davvero molto lontani dal nuovo obiettivo europeo del 45 per cento da raggiungere entro il 2030.
C’è bisogno di un congedo di maternità e paternità uguale anche in Italia, che cambi la cultura e la narrazione della maternità verso un’educazione sempre più collettiva. Occorrono misure ed incentivi a sostegno dei genitori lavoratori, a partire dallo smart working: fino al 31 marzo 2024 rimane un obbligo di legge per le aziende private concedere lo smart working integrale ai genitori con figli under 14, come voluto dal Governo da un anno a questa parte (prima con il Dl Milleproroghe, poi con il Decreto lavoro 2023 e infine con il Decreto anticipi 2023). Dal 1 aprile resterà un’opzione difficile da concordare con le aziende.
E soprattutto, occorre lasciare alle donne libertà di scelta sul proprio futuro. Indipendentemente dall’essere madre, una scelta inderogabile di ciascuna di noi.
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