Per l’8 giugno, Giornata mondiale degli oceani, abbiamo scelto otto startup che hanno proposto soluzioni concrete ai problemi ambientali che li affliggono.
Otto startup per la Giornata mondiale degli oceani
Coral gardeners
Kelp blue
Bureo
Underwater gardens
Ocean bottle
The great bubble barrier
Pesky fish
Ocean ecostructures
Coral gardeners
Siamo nell’isola di Moorea, nella Polinesia francese. “Sostanzialmente è un vulcano disperso nel mezzo del nulla. Per noi è il paradiso”, spiega Titouan Bernicot, esperto subacqueo e fotografo, National Geographic explorer. Nel 2015 Bernicot sta surfando con gli amici quando nota che i coralli sotto i suoi piedi sono diventati bianchi; sarebbero morti dopo appena qualche giorno. A quel punto, decide di fare qualcosa.
Quel qualcosa si chiama Coral gardeners ed è una startup che si occupa di riforestazione marina dei coralli. In pratica, gli operatori prelevano campioni di coralli, se ne prendono cura in apposite “nursery” facendoli riprodurre, monitorano la loro crescita attraverso strumenti digitali e poi li reinnestano nelle barriere coralline in natura. Nel solo 2021 hanno allevato 5.347 coralli, arrivando a un totale di 15.577 che sono stati restituiti alla natura dal 2017 in poi. Chiunque può adottarne uno a distanza, scegliendo la sua specie preferita e ricevendo in cambio un certificato: così facendo, contribuisce direttamente alle spese per la sua cura.
Kelp blue
La mission di questa startup è chiara fin dal nome, Kelp blue. Kelp infatti significa alghe e l’obiettivo è quello di piantarle nei fondali degli oceani, lasciandole libere di riprodursi. Ma perché proprio le alghe? Perché per coltivarle, creando un habitat per le altre specie marine, non servono pesticidi, fertilizzanti e non si producono rifiuti. Perché sono fonte di idrocolloidi, polifenoli, florotannini, mannitolo, fucoidano e altri composti bioattivi. E perché sequestrano CO2: i fondatori di Kelp blue vogliono arrivare, entro il 2050, a compensarne tra le 0,2 e le 0,5 gigatonnellate all’anno, più delle emissioni dei Paesi Bassi. Per ora la startup ha ottenuto la licenza per iniziare le operazioni commerciali al largo della Namibia, incassando peraltro un finanziamento pari a 2 miliardi di euro dal colosso dei diamanti De Beers.
Bureo
Nella lingua dei Mapuche, i nativi cileni, Bureo significa “onde”. Ha scelto questo nome una startup cilena che recupera le reti da pesca dismesse nelle zone costiere sudamericane, le disassembla e ne ricava particelle che vengono a loro volta estruse. Il risultato è Netplus, un filo di nylon rigenerato, idoneo alla realizzazione di una vasta gamma di indumenti. Patagonia, brand di outdoor storicamente noto per il suo impegno in campo ambientale, ha intrapreso insieme al team di Bureo un percorso di ricerca e sviluppo lungo ben cinque anni. Ad oggi, la collezione di giacche Patagonia fatte di Netplus ha contribuito a rimuovere dall’ambiente oltre 100 tonnellate di reti da pesca; tutto questo, con una filiera controllata che mira a dare lavoro alle comunità locali.
Discarded fishing nets are one of the most harmful forms of plastic pollution. That’s why we’ve partnered with @BureoInc to develop NetPlus®, the fully traceable, 100% recycled plastic material used in products like the brims in our hats.https://t.co/TaDZwkv1NGpic.twitter.com/mxjESIHqtO
È vero che l’uomo è il principale responsabile del collasso della biodiversità in corso, ma è anche vero che l’uomo, con la volontà e l’ingegno, può provare – per quanto possibile – a riparare i danni. Questo è lo spirito che anima Underwater gardens, una startup che favorisce la rigenerazione dell’ecosistema costruendo giardini artificiali sottomarini. Questi ultimi – ed è qui che si impernia il modello di business – diventano a loro volta fonti di reddito, come destinazioni per attività di turismo sostenibile, laboratori da cui attingere dati utili per la ricerca scientifica, parchi in cui riconnettersi con la natura.
Ocean bottle
Small bottle, big impact. È questo il claim di Ocean bottle, una startup che nel 2019 ha sbancato nella piattaforma di crowdfunding Indiegogo (raccogliendo poco meno di 250mila euro) e nel 2020 ha fatto incetta di premi (London business awards, Green product award, Forbes 30 under 30 Europe, Red dot design award).
Did you know that our bottles are made up of 69% recycled materials? A big part of this is the 90% recycled stainless steel that makes up the majority of the bottles ♻️
We're proud to be one of the only reusable bottle producers on the planet made from recycled materials 🌍 💪
Ma come funziona? Per ogni borraccia acquistata, la startup finanzia la raccolta di 11 chili di plastica, l’equivalente di altre mille bottiglie. Questo è possibile dando una retribuzione a squadre di operatori in diversi paesi in via di sviluppo, come l’India – nella città di Pondicherry c’è il primo centro di raccolta ufficiale, con otto dipendenti full time e 31 famiglie che collaborano per guadagnarsi un piccolo reddito aggiuntivo – e Ghana e Indonesia, raggiunte da poco.
L’utente ha anche una disposizione una app: gli basta registrarsi per vedere la mappa delle postazioni in cui riempire gratuitamente la sua borraccia, “salvando” così idealmente altre cinque bottiglie. Ad oggi, la startup ha contribuito alla raccolta di 5,6 milioni di chili di plastica, supportando così più di 5.700 famiglie. E le borracce Ocean bottle hanno fatto capolino anche alla Cop26 di Glasgow: erano quelle usate dalle migliaia di volontari.
È olandese una delle tecnologie più pionieristiche per raccogliere la plastica dagli oceani, Ocean Cleanup di Boyan Slat. Ed è olandese anche un altro sistema brevettato che vuole affrontare la stessa emergenza ambientale, focalizzandosi però sui fiumi. Si chiama The great bubble barrier e – come suggerisce il nome – è una sorta di barriera di bolle, creata pompando aria compressa attraverso un tubo che viene collocato fino a 7 metri di profondità. Così facendo si genera una corrente che dirige i rifiuti in superficie, dove vengono raccolti da un dispositivo apposito.
Coprendo l’intera larghezza e profondità del corso d’acqua, la barriera blocca i frammenti di plastica di diametro superiore al millimetro prima che arrivino al mare, senza però interferire con l’ecosistema fluviale né con il passaggio delle imbarcazioni. La prima è stata installata ad Amsterdam nel 2019, ma nel corso dell’estate 2022 ne verrà posizionata un’altra nei pressi di Porto, in Portogallo.
Pesky fish
Il pesce oggi è tra i capisaldi dell’alimentazione, visto che fornisce il 17 per cento delle proteine animali consumate nel mondo. Andando avanti di questo passo, però, distruggeremo questa preziosissima risorsa con le nostre mani. Oggi infatti più di un terzo degli stock ittici è pescato a livelli biologicamente non sostenibili, con picchi del 62,5 per cento nel Mediterraneo. C’è chi ritiene che la soluzione sia smettere di mangiarlo; la startup britannica Pesky fish, invece, propone una strada diversa, cioè mangiarlo con consapevolezza.
Questo marketplace business to business (b2b) mette in vendita soltanto gli esemplari di specie non a rischio di estinzione, di un’età che abbia consentito loro di riprodursi e pescati con tecniche che abbiano un impatto ridotto sull’ecosistema. Tutto questo applicando prezzi che siano accessibili per il consumatore ma, al tempo stesso, garantiscano un reddito dignitoso ai pescatori (nel 2020, nel solo Regno Unito, il numero di addetti nel settore è crollato del 15 per cento). La terza priorità è quella di abbattere l’impatto della filiera accorciandone i passaggi, scegliendo un packaging ecologico e compensando le emissioni di gas serra.
Da sempre l’uomo interviene sull’ambiente marino, e talvolta lo fa anche in modo molto invasivo, costruendo piattaforme petrolifere, porti commerciali e turistici, pale eoliche. All’insegna dello slogan “from grey to blue”, la startup spagnola Ocean ecostructures li trasforma in strumenti di rigenerazione della biodiversità, attraverso materiali e tecnologie che creano condizioni ideali per lo sviluppo di flora e fauna negli oceani.
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Continua ad aumentare il numero di sfollati nel mondo: 120 milioni, di cui un terzo sono rifugiati. Siria, Venezuela, Gaza, Myanmar le crisi più gravi.