Roberta Redaelli, nel suo saggio Italy & Moda, raccoglie le voci del tessile. E invita il consumatore a fare scelte che lo spingano alla sostenibilità.
Shein, a che punto siamo con il colosso dell’ultra fast fashion
Mentre Shein sta concentrando i suoi sforzi per modificare il percepito del brand, nuove inquietanti accuse arrivano dagli Stati Uniti.
Si apre un nuovo capitolo nella saga Shein, e questa volta coinvolge gli Stati Uniti. Lo scorso ottobre il mondo è rimasto sotto shock in seguito al documentario di denuncia di Channel 4, che ha rivelato le condizioni disumane in cui sono costretti a lavorare i dipendenti di Shein, colosso dell’ultra fast fashion cinese che basa il suo business sulla sovrapproduzione. Le agghiaccianti rivelazioni del documentario “Untold: Inside the Shein machine” andavano dai 4 centesimi a pezzo percepiti dai lavoratori fino alle decurtazioni dello stipendio in caso di errore o mancanza nei confronti dell’azienda.
Cosa è successo da allora? Mentre Shein sta cercando con tutte le sue forze di cambiare la percezione pubblica della propria immagine attraverso donazioni e iniziative di vario genere, una coalizione internazionale ha lanciato lo scorso marzo la campagna Shut down Shein.
L’inchiesta di Channel 4 e le manovre di riposizionamento
Dopo l’inchiesta di Channel 4 Shein ha rispedito le critiche al mittente assicurando che sarebbero state interrotte tutte quelle collaborazioni che non fossero risultate conformi agli standard fissati dall’Organizzazione internazionale del lavoro e dai regolamenti locali, ma più che altro si è limitata a tenere un riserbo piuttosto stretto aspettando che l’hype su questa vicenda scemasse e tentando di attirare l’attenzione su altro.
Gli sforzi più grandi di rebranding di Shein per il momento si stanno concentrando in Cina e negli Stati Uniti, mercato gigantesco dove l’app per comprare online è la più scaricata nel settore abbigliamento e la quarta in generale. In Cina ha dichiarato di voler stanziare 15 milioni di dollari da destinare ad un significativo miglioramento delle condizioni delle fabbriche da attuare grazie ad un Supplier community empowerment programme (Scep), istituito per migliorare gli standard e apportare miglioramenti fisici. Altri 4 milioni di dollari dovrebbero servire per finanziare ispezioni a sorpresa nelle fabbriche per verificarne le condizioni. Al di là dello statement ancora non ci sono verifiche tangibili che queste iniziative siano state in primo luogo messe in atto e in secondo abbiano prodotto dei risultati. I lavoratori non sono gli unici ad avere qualcosa da recriminare a Shein, che negli Stati Uniti è stata spesso e volentieri impegnata nel difendersi da diverse cause federali per violazione del copyright.
E qual è stata la risposta di Shein per essere regolarmente accusata di copiare i modelli degli altri? Un mega summit a Los Angeles con centinaia di designer: un tentativo di dimostrare che il brand è orientato a lavorare con loro piuttosto che rubare la loro creatività. Anche il programma Shein X si inserisce in un contesto di riposizionamento rispetto allo sfruttamento della proprietà intellettuale altrui dove Shein vuole assumere il ruolo di innovatore e sostenitore di valori quali diversità e inclusione. Sul sito si legge che sono stati ben 3.000 i designer beneficiari del programma, di cui il 40 per cento donne, tutti incoraggiati a inserire nelle loro creazioni delle fibre riciclate.
Moda, inclusione e greenwashing un tanto al chilo, si potrebbe dire. In Europa Shein al momento tiene un profilo basso e si limita ad attività più pop e di posizionamento più leggero come la sponsorizzazione di uno dei pool party più famosi della stagione estiva ad Ibiza, l’O Beach Ibiza. Negli scorsi giorni giorni poi su Linkedin è comparso un annuncio con priorità alta: Shein ricerca per l’Italia una figura da inquadrare nel reparto di Market branding. Insomma: pare proprio che alzare il tiro della propria comunicazione, fino ad oggi prevalentemente affidata ai influencer poco più che adolescenti, sia il prossimo step del colosso cinese.
Shut down Shein, la campagna dagli Stati Uniti
Tra chi non si sta troppo bevendo il nuovo racconto che Shein sta facendo di sé c’è una coalizione internazionale che lo scorso marzo ha lanciato una campagna globale dal titolo piuttosto evocativo: Shut Down Shein. Pratiche commerciali discutibili e violazione dei diritti umani sono i principali pilastri intorno ai quali si articola la campagna, che è nata con l’intento di informare tanto i funzionari governativi statunitensi quanto l’opinione pubblica americana sui modi in cui Shein starebbe non solo tratta i suoi dipendenti, ma sfrutta le leggi sulle importazioni per eludere miliardi di dazi. Shut Down Shein sostiene che, proprio come Amazon negli Stati Uniti ha iniziato con i libri, Shein stia usando l’abbigliamento economico pubblicizzato a suon di Reel su TikTok come precursore della sua espansione in tutti i settori della vendita al dettaglio.
Al gigante dell’ultra fast fashion cinese vengono rivolte sempre più accuse a livello internazionale, ma soprattutto dagli Stati Uniti, rispetto allo sfruttamento degli uiguri, un’etnia turcofona di religione islamica che vive nel nord-ovest della Cina dove sorgerebbero alcune fabbriche di Shein e le cui condizioni risponderebbero alla definizione di puro sfruttamento. Usare il condizionale in una situazione internazionale tanto intricata è d’obbligo: perfino il governo di Pechino respinge le accuse mosse a Shein dagli Stati Uniti, ma questo sappiamo non essere una garanzia di verità. Shut down Shein in pochi mesi di attività è riuscita tuttavia a smuovere la situazione, tanto che il primo maggio un gruppo bipartisan di 22 membri della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti ha chiesto alla Securities and Exchange Commission di richiedere Shein di certificare i prodotti realizzati in Cina non utilizzino il lavoro forzato degli uiguri.
L’apprensione degli organizzatori di Shut Down Shein non riguarda solamente la violazione dei diritti umani, ma anche una questione più meramente economica: in poche parole Shein starebbe usufruendo di una scappatoia tariffaria pensata per i turisti statunitensi per eludere miliardi di dollari di dazi doganali. Le politiche del brand stabiliscono infatti che gli utenti, dal momento della creazione di un account, diventano importatori di riferimento, il che significa che ogni utente è un importatore individuale. Finché un ordine di Shein è inferiore a 800 dollari, non scatta l’obbligo di segnalazione alla Dogana e alla Protezione dei Confini degli Stati Uniti. Shein spedisce negli Stati Uniti merce per miliardi di dollari, ma poiché ogni titolare di conto è l’importatore di riferimento, il brand evita le tariffe doganali che dovrebbe pagare. Questo non solo permette a Shein di eludere i dazi statunitensi, ma sposta anche la responsabilità legale di dimostrare che i prodotti non sono stati prodotti utilizzando manodopera schiavizzata.
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