Nato per favorire gli investimenti fossili nell’ex blocco sovietico, diversi paesi membri ora vogliono abbandonare l’Energy charter treaty.
30 anni per abbandonare un trattato sull’energia dannoso per la transizione europea
Approvato il ritiro degli stati membri dal Trattato sulla carta dell’energia, giudicato troppo protettivo verso le imprese che investono nei fossili.
- Il Consiglio dei ministri dell’Ue ha approvato il ritiro dei Paesi membri dall’Energy charter treaty, considerato uno strumento obsoleto e protettivo nei confronti delle imprese che investono nei combustibili fossili.
- Grazie al trattato, infatti, le società private potevano fare causa agli stati impegnati a sviluppare e adottare leggi di contrasto ai cambiamenti climatici.
Il Consiglio dei Ministri dell’Unione europea ha approvato il ritiro degli stati membri dell’Ue dal Trattato internazionale della Carta dell’Energia (Energy charter treaty), considerato troppo protettivo nei confronti degli investimenti in combustibili fossili e dal quale molti Paesi, tra cui la Francia, avevano già annunciato più volte di voler uscire.
A luglio, la Commissione europea aveva proposto che l’Ue, insieme ai suoi Stati membri e all’Euratom (l’Organizzazione nucleare civile europea), “si ritirasse in modo coordinato e ordinato” da un trattato ritenuto “incompatibile con le ambizioni climatiche dell’Europa”, scrive il sito Eunews.
Così, i ministri dell’Unione europea riuniti a Bruxelles hanno approvato la proposta: ora è necessario il via libera definitivo degli eurodeputati. Un’altra proposta adottata congiuntamente, tuttavia, lascia aperta la possibilità per gli Stati che lo desiderano di approvare la “modernizzazione” del trattato in una futura conferenza dell’organizzazione e di rimanere membri del trattato modificato (richiesta avanzata in particolare da Ungheria e Cipro).
Che cos’é l’Energy charter treaty
Il Trattato sulla Carta dell’Energia (Ect) è stato firmato nel 1994 a Lisbona con l’obiettivo di promuovere una cooperazione trans-frontaliera nel settore dell’energia, in particolare tra i due fronti della “cortina di ferro” (la linea di confine che ha diviso l’Europa in due zone separate di influenza politica, dalla fine della seconda guerra mondiale alla fine della guerra fredda). Il trattato nacque per offrire più garanzie alle società occidentali che volevano investire negli ex-stati della galassia di influenza sovietica, che allora stavano passando a un modello di capitalismo di mercato e avevano molte risorse fossili in attesa di essere sfruttate. Sotto l’egida dell’Ect, gli investitori potevano operare protetti dal rischio di espropri, di nazionalizzazioni, di violazioni dei contratti e da tutte le circostanze impreviste che potevano avere un impatto sulle prospettive di profitto.
Ma a differenza delle aspettative, l’Ect divenne presto un sistema arbitrale privato, con sentenze giuridicamente vincolanti: appellandosi agli strumenti previsti dal trattato per risolvere le controversie, infatti, le società che gestivano giacimenti di combustibili fossili e centrali elettriche potevano avviare azioni legali contro gli stati sempre più impegnati a sviluppare e adottare leggi di contrasto ai cambiamenti climatici e di riduzione delle emissioni di CO2.
Infatti, la più grande criticità della Carta risiede nella clausola sulla risoluzione delle controversie in materia di investimenti e stato (ISDS o Investor-State-Dispute-Settlement). Come anticipato, infatti, tale clausola tutela gli investimenti delle imprese da politiche nazionali teoricamente lesive dei loro interessi, consentendo loro l’accesso ad arbitrati privati. Politiche come quelle legate alla decarbonizzazione energetica. In altre parole le multinazionali che hanno investito nella produzione energetica fossile, nell’Est così come nell’Ovest dell’Europa, possono citare in giudizio i governi per la perdita di profitto in caso di nuove norme o leggi che favoriscano la transizione ecologica.
I paesi che abbandonano il trattato possono ancora subire contenziosi per 20 anni
Di fronte a un numero crescente di controversie, gli europei hanno inizialmente cercato di modernizzare il testo per evitare rivendicazioni opportunistiche e abbandonare gradualmente i combustibili fossili. Tuttavia, in assenza di un rapido compromesso, alla fine del 2022, quasi una dozzina di Paesi dell’Ue (Francia, Spagna, Paesi Bassi, Germania, Lussemburgo, Polonia, ecc.) hanno deciso di ritirarsi dall’Ect. Al di fuori dell’Ue, il Regno Unito ha annunciato il suo ritiro il 22 febbraio.
Tuttavia, chi abbandona l’Ect è ancora soggetto alla “clausola di sopravvivenza”, che protegge gli impianti a combustibili fossili coperti dal trattato per diversi anni dopo il ritiro di un Paese firmatario. Senza una riforma approvata in sede istituzionale (manca ancora il voto degli eurodeputati), i paesi che abbandonano il trattato possono subire contenziosi ancora per 20 anni. COlpa della “clausola di caducità”.
Ne è un esempio il caso dell’Italia, che pur avendo abbandonato il trattato effettivamente nel 2016, nel 2022 ha ricevuto una condanna a pagare un risarcimento di circa 200 milioni di euro alla società petrolifera Rockhopper per aver rifiutato un permesso di trivellazione offshore.
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