Quali sono le cause e le conseguenze del rilascio dell’acqua di Fukushima Daiichi, una delle decisioni più controverse nella trama del disastro nucleare?
Il 24 agosto, alle ore 13 locali, è avvenuto il primo sversamento di acqua “triziata” nell’oceano Pacifico dalla centrale nucleare di Fukushima Daiichi, in Giappone: il primo di una lunga serie, visto ci vorranno trenta o forse quarant’anni per rilasciare tutta l’acqua che si è accumulata presso la centrale.
L’acqua viene usata dalle centrali nucleari per raffreddare i reattori, e quella triziata – chiamata così perché contiene un isotopo radioattivo dell’idrogeno, il trizio, che diventa acqua legandosi con l’ossigeno – è un prodotto secondario sia della produzione di energia nucleare che del “riprocessamento”, ovvero il riciclo, del combustibile nucleare esausto. L’acqua triziata viene scaricata nei mari e nei fiumi dagli impianti nucleari di tutto il mondo e, generalmente, si ritiene che sia sicura perché la sua molecola è molto simile a quella dell’acqua “normale”, e quindi passa velocemente attraverso gli organismi.
Ad esempio, fino a poco tempo fa, in Europa esistevano due impianti per il riprocessamento del combustibile nucleare esausto: Sellafield in Regno Unito e La Hague in Francia. L’impianto britannico ha smesso di operare l’anno scorso, ma per decenni ha sversato tonnellate di acqua triziata nel mare d’Irlanda, e la centrale francese continua tutt’ora con questo tipo di rilasci nel canale della Manica.
“Ma nessuno si è mai interessato al trizio come nel caso di Fukushima”, dice Nigel Marks, professore associato dell’università di Curtin, in Australia, ed esperto di materiali nucleari. Da quando nel 2021 il Giappone ha annunciato che avrebbe rilasciato oltre 1,3 milioni di tonnellate di acqua dalla centrale di Fukushima Daiichi nell’oceano, il trizio è sulla bocca di tutti.
Lo sversamento è una delle tante conseguenze del disastro avvenuto alla centrale che si trova nella prefettura di Fukushima, parte della regione nord-orientale del Tohoku. L’11 marzo 2011, questa porzione del Giappone venne devastata dal terremoto più forte mai registrato nel paese, che provocò uno tsunami mostruoso, causando la morte di 20mila persone e l’inondazione della centrale di Fukushima, che risultò in uno dei disastri nucleari più gravi della storia mondiale, secondo solo a quello di Chernobyl.
A Fukushima Daiichi è tutt’ora in corso un’opera di decommissionamento molto complessa gestita dall’azienda proprietaria della centrale, la Tokyo electric power company (Tepco). L’operazione dovrebbe concludersi entro il 2051, secondo il governo giapponese, con un costo totale stimato di 136 miliardi di euro – 15 volte quello dei Giochi olimpici e paralimpici di Tokyo 2020.
Intorno ai sei reattori della centrale ci sono più di mille cisterne che contengono 1,3 milioni di tonnellate, pari a oltre 500 piscine olimpiche, di acqua radioattiva, contaminata dopo essere venuta a contatto con le barre di combustibile nucleare all’interno dei reattori; la perdita di corrente causata dallo tsunami del 2011, infatti, causò la fusione del nocciolo in tre di questi reattori. L’acqua è sia quella usata per raffreddare i reattori e impedire ulteriori incidenti, che quella sotterranea e quella piovana che riescono a infiltrarsi negli edifici dei reattori. Tutta quest’acqua viene fatta poi confluire nelle cisterne attraverso un sistema di tubature.
Nel tratto di mare di fronte alla centrale, c’è poi un tunnel lungo un chilometro: è da qui, a una profondità di 12 metri, che fuoriesce l’acqua di Fukushima, che viene rilasciata a quella distanza per prevenire che si mischi con l’acqua di mare usata nell’operazione di decommissionamento. Ed è in risposta a questo sversamento che si è sollevato un mare di proteste e un dibattito globale sul nostro passato, presente e futuro energetico.
Un mare d’acqua
Nei primi anni dopo il disastro nucleare, ogni 24 ore, fino a 500 tonnellate di acqua si accumulavano nei serbatoi intorno alla centrale, ma grazie ad alcuni interventi questa quantità si è ridotta a 100 tonnellate giornaliere.
Ora però non c’è quasi più spazio nelle cisterne, né per costruirne di nuove nell’area della centrale. E fuori? Il governo giapponese ritiene che non può comprare altro terreno per ospitare l’acqua perché “i rifiuti generati all’interno della centrale vanno gestiti nell’area della centrale”, nelle parole di Tomohiko Mayuzumi, comunicatore del rischio dell’ufficio di pubbliche relazioni della Tepco. C’è poi il pericolo che altri terremoti possano provocare danni alle cisterne, dice il governo.
I rifiuti generati all’interno della centrale vanno gestiti nell’area della centrale.
Tomohiko Mayuzumi, comunicatore del rischio della Tepco
La centrale di Fukushima Daiichi si trova al confine tra due comuni, Okuma e Futaba. Parte del loro territorio è ancora sotto l’ordine di evacuazione e queste località ospitano già enormi impianti per stoccare temporaneamente milioni di sacchi di terra contaminata dalle radiazioni (quella rimossa da campi e altre superfici per ridurre i livelli di contaminazione in seguito al disastro). Secondo Shaun Burnie, senior nuclear specialist di Greenpeace East Asia, la decisione di non costruire altre cisterne è fondamentalmente politica.
“Nell’area della centrale, il terreno disponibile è già stato allocato per lo stoccaggio del combustibile nucleare (una volta che verrà rimosso dagli edifici dei reattori, ndr)… Tutto quel combustibile, tutte le scorie, tutto dev’essere rimosso dall’area”, secondo una promessa fatta dal governo nazionale alla prefettura di Fukushima per rendere di nuovo agibile, e quindi abitabile, la zona intorno alla centrale, dice Burnie. Sarebbe quindi difficile convincere Okuma e Futaba a ospitare anche i serbatoi di acqua radioattiva.
L’acqua viene dunque rilasciata nell’oceano dopo essere stata filtrata usando l’Advanced liquid processing system (Alps), impiegato per ridurre i livelli di 62 isotopi radioattivi, o radionuclidi, al di sotto della soglia stabilita dalla legge giapponese. Il sistema però non è in grado di rimuovere il trizio e un altro radionuclide, il carbonio-14; l’acqua trattata con Alps viene quindi diluita 100 volte con quella marina.
Secondo il piano, il limite massimo di trizio rilasciato dalla centrale è intorno a un settimo di quello stabilito dalle linea guida dell’Organizzazione mondiale della sanità per l’acqua potabile. In un anno, non vengono sversati più di 22 trilioni di becquerel (unità che misura l’attività delle sostanze radioattive). Che sembra tantissimo, ma in realtà è meno, anche molto meno, della quantità rilasciata da impianti in altre parti del mondo: ad esempio, “450 volte in meno rispetto a La Hague”, dice Jim Smith, professore di scienze ambientali all’università di Portsmouth, in Regno Unito, ed esperto di inquinamento ambientale da radiazioni.
A giugno, Rafael Grossi, direttore generale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), che fa capo alle Nazioni Unite, ha dichiarato che lo sversamento di Fukushima “è in linea con gli standard globali di sicurezza e avrebbe un impatto radiologico trascurabile per le persone e l’ambiente”, come dettagliato nel rapporto completo dell’Aiea sulla sicurezza piano di sversamento.
Perché, allora, così tante persone sono contrarie?
Il vento contro
In prima linea contro il rilascio ci sono cittadini come Chiyo Oda, membro di Koreumi (“questo mare” in giapponese), un gruppo contro lo sversamento che riunisce persone di Fukushima, come Oda, e da altre parti del Giappone. Oda è una di circa 150 cittadini che sono ora in causa con il governo e la Tepco per fermare il rilascio.
“Noi cittadini siamo stati esposti alle radiazioni a causa dell’incidente nucleare”, dice l’attivista. “Ma il rilascio nell’oceano è una cosa che il governo sceglie di fare. Siamo molto arrabbiati”.
I pescatori giapponesi sono tra i gruppi che si sono opposti più fermamente al rilascio perché temono gli impatti economici e reputazionali. Impatti che ci stanno già vedendo perché, ad esempio, se la Cina era il mercato estero più grande per i prodotti marini giapponesi, dopo l’inizio del rilascio, Pechino ha messo al bando le importazioni di questi prodotti, e lo stesso hanno fatto anche Hong Kong e la Russia.
Negli ultimi anni, ai pescatori della zona è stato chiesto di compilare diversi questionari sul tema del rilascio, sostengono Yasuhiro Otomo, pescatore di terza generazione, e il produttore di alghe Futoshi Aizawa, entrambi della prefettura di Miyagi, a nord di Fukushima – ed entrambi contrari al rilascio. Nel 2015, il governo giapponese ha poi stilato un accordo con la federazione delle associazioni di cooperative di pescatori di Fukushima secondo cui “l’acqua trattata non verrà rilasciata senza la comprensione delle persone coinvolte”. L’accordo non è stato rispettato, dice la federazione; per compensare il danno economico, il governo ha promesso 500 milioni di euro per sostenere l’industria in tutto il paese.
La resilienza di questa industria è infatti alla prova, visto anche il crollo del commercio con la Cina, la nazione che si è schierata più duramente contro lo sversamento. “L’oceano non è la fogna del Giappone”, è il messaggio del suo governo, ribadito in più occasioni. Inoltre, sui social media abbondano dichiarazioni anti-giapponesi da parte di cittadini e ufficiali cinesi, e in Cina c’è stata un’ondata di azioni contro l’ambasciata (che ha ricevuto un milione di telefonate moleste in due mesi, secondo Tokyo) e le scuole giapponesi, e telefonate di protesta a cittadini e aziende in Giappone. Uno scenario complicato dai rapporti diplomatici già tesi tra Giappone e Cina – nazione che, in quanto produttrice di energia nucleare, rilascia regolarmente acqua triziata nell’ambiente.
Altro oppositore è il Forum delle isole del Pacifico (Pif), che riunisce 18 stati della regione – alcuni dei quali, però, come la Micronesia, le Fiji e la Nuova Zelanda, che non sono contrari allo sversamento. “Sulla base della nostra esperienza di inquinamento nucleare (dai test atomici americani, britannici e francesi del secolo scorso, ndr), continuare con il piano di rilascio nell’oceano in questo momento è semplicemente inconcepibile”, ha scritto Henry Puna, segretario generale Pif, sul Guardian all’inizio di quest’anno.
Posizione ribadita da Bedi Racule, attivista per la giustizia nucleare e climatica che vive a Fiji e lavora per la Conferenza delle chiese del Pacifico. “Ci dicono che il rilascio rispetta gli standard di sicurezza, ma questo è problematico perché quegli standard sono arbitrari, e al di là di questo, è la cosa giusta da fare?”.
The ocean is for fishing, diving, sailing, playing… not for dumping nuclear waste! #DONTNUKETHEPACIFIC
Posizione complessa è invece quella della Corea del Sud che, inizialmente contraria al rilascio, ha cambiato posizione. L’attuale presidente Yoon Suk-yeol è impegnato a migliorare le relazioni con Tokyo, anche se rimane sotto pressione dall’opposizione e dall’opinione pubblica sudcoreane, fortemente contrarie al rilascio. Il 70 per cento dei sudcoreani lo è, secondo un sondaggio recente.
Al mercato, “non sono riuscita a comprare prodotti locali come il sale marino perché erano finite le scorte, penso perché le persone credono che il rilascio avrà un impatto anche sulla costa coreana”, racconta Yoonji Koo, che vive sull’isola sudcoreana di Jeju.
Ci dicono che il rilascio rispetta gli standard di sicurezza, ma… è la cosa giusta da fare?
Bedi Racule, attivista per la giustizia nucleare e climatica
E i giapponesi? Secondo un sondaggio di fine settembre, oltre la metà delle persone è favorevole al rilascio. Tuttavia, un altro sondaggio ha rilevato che tre quarti della persone crede che il governo non abbia fatto abbastanza per prevenire i danni alla reputazione dei pescatori. Rimane poi da capire se i timori di chi è opposto al rilascio si fondino su basi scientifiche solide.
Cosa dice la scienza
“Fondamentalmente… nessuno nella comunità scientifica che lavora nel campo delle radiazioni è preoccupato”, sostiene Marks, perché lo sversamento è in linea con quelli che fanno le centrali di tutto il mondo da decenni, e a cui non si possono attribuire danni significativi né alla salute umana né all’ambiente.
Una delle critiche che si sente spesso, però, è che l’acqua di Fukushima è “diversa” perché è venuta direttamente a contatto con il combustibile nucleare e non contiene solo trizio. “È sbagliato dire che è diversa”, sostiene Marco Pellegrini, professore associato di progetto alla scuola nucleare professionale dell’università di Tokyo. “Una volta che i radionuclidi sono stati eliminati, quell’acqua non è più radioattiva, indipendentemente da dove è venuta”.
L’acqua viene trattata per ridurre i livelli di radioattività arrivando a dosi minime, spiega Marks: l’oceano Pacifico contiene già 8,4 chilogrammi di trizio, che è presente anche in natura, e meno di 0,06 grammi di trizio verrebbero rilasciati da Fukushima ogni anno.
Queste rassicurazioni vengono però messe in discussione da alcuni scienziati ed esperti, che sottolineano tre punti principali. Il primo riguarda il trizio. Se è vero che l’acqua triziata passa attraverso gli organismi, parte di essa può trasformasi in “trizio fisso“, o “Obt” nell’acronimo inglese, quando il trizio si lega con gli atomi di carbonio. Una volta entrato nelle cellule, il trizio, che emette radiazioni basse di tipo beta, è in grado di causare danni, sostiene Ian Fairlie, consulente indipendente sulla radioattività nell’ambiente ed ex funzionario del governo britannico.
Accumuli di trizio fisso in prossimità degli impianti nucleari e la necessità di realizzare indagini più approfondite sono evidenziati in alcuni studi. Marks sottolinea invece un’altro studio che ha simulato gli effetti radiologici del rilascio da Fukushima Daiichi sul biota marino.
“Gli autori hanno preso in considerazione la quantità di trizio che si accumula nell’arco della durata di una vita umana – se una persona dovesse mangiare solo quei pesci che vivono vicino al punto di rilascio, la dose di radiazioni dal trizio sarebbe equivalente a un morso di banana”. E la dose complessiva da tutti i radionuclidi sarebbe la stessa di una radiografia dentale, prosegue Marks.
Del trizio fisso si parla poco perché enti come l’Aiea, la Tepco e il governo giapponese non ne discutono apertamente, benché non ne negano l’esistenza. Dunque, se le persone vengono a sapere del trizio fisso, questo tende a erodere la fiducia nelle istituzioni responsabili.
E qui tocchiamo il secondo punto. L’acqua contiene anche altri isotopi radioattivi. “Nel 2018… ero soprattutto interessato a sapere cosa ci fosse nell’acqua (nei serbatoi intorno alla centrale)”, ha raccontato Azby Brown, responsabile ricerca dell’organizzazione di monitoraggio ambientale Safecast, a LifeGate nel 2021. “(Quelli della Tepco) mi hanno sempre mostrato dati che parlavano solo di trizio. Nel settembre di quell’anno si è scoperto che c’erano molti altri radionuclidi nell’acqua nelle cisterne… mi avevano mentito”.
Un’indagine dell’agenzia di stampa giapponese Kyodo rivelò, infatti, livelli alti di diversi radionuclidi e che la Tepco avrebbe quindi dovuto ritrattare il 70 percento dell’acqua già filtrata con Alps.
Mayuzumi della Tepco afferma che “per l’acqua trattata con Alps fino al 2018, il prerequisito non era quello del rilascio,” ma di ridurre le dosi di radioattività nell’area della centrale. Tepco ammette però che all’epoca dell’indagine, le informazioni sarebbe potute essere condivise in modo migliore. “Per migliorare questo punto, abbiamo creato un portale sull’acqua trattata perché le persone possano avere accesso alla informazioni”, dice Mayuzumi. Inoltre, i dati sul rilascio dalla centrale vengono condivisi in tempo reale.
Il tema dei dati, il terzo punto, è particolarmente sensibile. Secondo un gruppo di scienziati incaricati dal Pif di valutare il piano di sversamento, i dati forniti dalla Tepco sui livelli di radioattività dell’acqua pre-rilascio in ognuno dei mille serbatoi non sono sufficienti.
Smith, però, dice di non essere preoccupato perché l’acqua che viene rilasciata viene prima controllata rigorosamente e, se serve, ri-trattata prima che finisca nell’oceano. Anche Marks non nega le critiche scientifiche fatte al rilascio, ma dice: “Ci sono tutti questi fatti che direi che sono veri, ma non sono rilevanti” – a dimostrazione che quella del rilascio è una questione polarizzata e polarizzante anche tra gli scienziati.
“Uno scienziato dice questo, uno dice l’altro… Si tratta di capire quale opinione ha valore,” sostiene Marks, che non nega, comunque, che quella di Fukushima è una situazione unica. Gli addetti dell’industria nucleare si sono chiesti “come mai le persone si preoccupino per una quantità di trizio relativamente modesta”, ma facendo così, non prendono in considerazione come viene percepita la fonte, dice Marks.
In questo scenario confuso, il ruolo delle istituzioni dovrebbe essere quello di tracciare un percorso chiaro. Ma molti credono che il governo giapponese non sia stato all’altezza.
Uno scienziato dice questo, uno dice l’altro… Si tratta di capire quale opinione ha valore.
Nigel Marks, professore associato all’università di Curtin
La (non) comunicazione
Per capire come si è arrivati al rilascio, bisogna tornare al 2011. Già a dicembre di quell’anno la Tepco aveva proposto di trattare l’acqua che si stava accumulando alla centrale e rilasciarla in mare, racconta Kohta Juraku, professore alla Tokyo denki university e ricercatore specializzato nella sociologia della scienza e della tecnologia, in un libro del 2016.
Il giorno stesso in cui la Tepco avanzò la proposta, il presidente dell’associazione nazionale di pescatori la definì inaccettabile a causa dei potenziali danni reputazionali, e la questione venne accantonata. “Il fatto che la Tepco abbia deciso… di rimandare la decisione ‘per il momento’ in risposta all’opposizione degli stakeholder, ha potenzialmente ostacolato (la) gestione dell’acqua contaminata” negli anni in seguito al disastro, scrive Juraku.
Fu in quegli anni che il governo valutò cinque opzionidiverse su cosa fare dell’acqua, tra cui iniettarla negli strati profondi della geosfera, sotterrarla, rilasciarla come vapore, o rilasciarla come idrogeno.
Anche la società civile avanzò le proprie ipotesi. Kanna Mitsuta, direttrice esecutiva alla ong Friends of the earth (Foe) Japan, racconta come la Commissione cittadina sull’energia nucleare, un forum giapponese di cittadini opposti al nucleare con cui lavora come consigliera, “ha proposto due piani alternativi al governo: lo stoccaggio dell’acqua in grandi cisterne o lo smaltimento dei rifiuti attraverso la solidificazione in malta da stoccare sottoterra”.
A detta di Mitsuta, le loro proposte non sono mai state considerate seriamente, nemmeno negli incontri con le istituzioni. “Per ovviare l’impressione che la decisione fosse stata presa solo dalla Tepco e dal ministero dell’Economia (quello maggiormente coinvolto nell’opera di decommissionamento, ndr) – e qui non parlo solo della questione dell’acqua contaminata – le autorità giapponesi tendono a invitare esperti che sono conformi alle loro idee e che fanno solo finta di discuterle”.
Le autorità giapponesi tendono a invitare esperti che sono conformi alle loro idee e che fanno solo finta di discuterle.
Kanna Mitsuta, direttrice esecutiva a Friends of the earth Japan
Dopi anni di valutazioni, l’annuncio ufficiale arrivò il 13 aprile 2021. “Il rilascio dell’acqua trattata è una questione inevitabile,” dichiarò l’allora primo ministro Yoshihide Suga.
Le reazioni negative furono molte. Ad esempio, tre relatori speciali delle Nazioni Unite per i diritti umani si espressero contro la decisione, dichiarando che presentava “considerevoli rischi per la tutela dei diritti umani”.
In parte, reazioni così severe si possono attribuire al fatto che non ci sono state consultazioni significative a livello internazionale sulla decisione, percepita come unilaterale da molti, al di fuori di quelle con l’Aiea.
Inoltre, secondo Brown, le best practice per coinvolgere gli stakeholder – tra cui “la definizione dei parametri dello studio di impatto” e la possibilità per il pubblico di “avere accesso ai dati grezzi” – non sono state adottate minimamente. “La decisione era stata presa (da tempo)… e non c’è stata trasparenza… E l’Aiea ha detto, ‘pensiamo che la comunicazione con il pubblico sia stata molto buona’. Come sono potuti arrivare a questa conclusione?”.
Sotto l’acqua di Fukushima
L’11 settembre si è conclusa la prima tranche dello sversamento e il 5 ottobre è iniziata quella successiva. Secondo la Tepco e l’Aiea, i livelli di radionuclidi, tra cui di trizio, sono sempre stati sotto i limiti.
La linea tra chi è a favore dello sversamento e chi no – senza dimenticare una sostanziale fetta di persone indecise o indifferenti – segue un’altra divisione, ancora più netta, tra chi è a favore o contro l’energia nucleare.
Persone come Burnie non si fidano delle rassicurazioni dell’Aiea e del governo giapponese “ossessionato con il nucleare”, ovvero col fare ripartire un’industria che considera chiave per ridurre le emissioni (tutte le centrali nucleari in Giappone vennero fermate in seguito al disastro del 2011; undici su 33 reattori operabili sono ora stati riattivati).
Il fatto che lo sversamento sia compatibile con gli standard internazionali significa ben poco, secondo Burnie, perché “le norme sul nucleare esistono per permettere all’industria di continuare a operare”.
C’è poi chi non accetta qualsiasi immissione di radiazioni nell’ambiente. Questa posizione è frutto dell’influenza di gruppi contrari a qualsiasi forma di tecnologia nucleare e di una mancata educazione sui rischi della radioattività tra il pubblico, sostiene Antony Hooker, professore associato e direttore del centro per la ricerca, l’educazione e l’innovazione sulla radioattività all’università di Adelaide, in Australia: “Non ci sono evidenze scientifiche per provare che dosi basse di radiazioni siano rischiose perché è molto difficile vedere gli effetti delle radiazioni sull’incidenza di cancro, vista l’incidenza già così alta”.
Hooker è l’unico membro del gruppo di scienziati del Pif ad appoggiare il piano di rilascio. Ammette, però, che “questo potrebbe essere un buon momento per trovare soluzioni alternative al rilascio di trizio nei mari e nei corsi d’acqua”.
Perché a prescindere dalla validità scientifica del rilascio, non c’è dubbio che la questione tocchi corde profonde. “C’è parte di me che si chiede: ha senso fare qualcosa che non è ottimale, scientificamente parlando, ma che viene percepito come accettabile dal pubblico?”, si chiede Marks.
Al di là dei titoli di giornale, delle proteste e della cacofonia di opinioni, c’è poi il confine (tutt’altro che lineare) tra Fukushima come luogo di distruzione e di rinascita. Se per alcuni sarà per sempre sinonimo di incidente nucleare, per altri questo territorio ha bisogno di essere restaurato.
Ma il rilascio non ha gettato acqua sul fuoco. Lo ha alimentato. “Non è una questione semplice, ma è più importante per noi (pensare alla) giustizia ambientale,” dice Miku Narisawa, fondatrice e co-direttrice di Odyssey Nature Japan, organizzazione impegnata nell’educazionale ambientale per le nuove generazioni. Narisawa ha perso casa e amici nello tsunami e sta usando quel trauma per seminare qualcosa di buono, aiutando la sua comunità a essere più resiliente.
Perché quando l’attenzione si sarà spostata altrove – ad esempio, ad altri problemi legati al decommissionamento della centrale – saranno le comunità locali a doversi rimboccare le maniche affinché questa ondata di eventi fuori dal loro controllo non li travolga completamente.
Questo reportage è stato realizzato con il sostegno dell’Earth journalism network di Internews.
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