Si parla di vintage se un capo ha più di 20 anni, è definibile second hand invece è qualsiasi oggetto abbia già avuto un precedente proprietario.
Moda sostenibile, mini guida all’acquisto consapevole di denim
Valutare l’impatto ambientale dei capi che compriamo non è sempre immediato: ecco qualche dritta in merito al denim, uno dei tessuti meno sostenibili.
- Le domande fondamentali da porsi prima di acquistare un paio di jeans sono tre: come e dove è stato prodotto e quanto costa. Questo già ci dà delle indicazioni sulla sua ecocompatibilità e sulla sostenibilità etica.
- Esistono delle alternative più rispettose dell’ambiente, come jeans realizzati con denim 100 per cento biobased e biodegradabile oppure creati tramite processi di upcycling.
- Il denim è un prodotto che richiede moltissima acqua per la sua fattura, ma sono poi i lavaggi domestici ad aumentare l’impatto ambientale di un paio di jeans: scopriamo qualche trucco per lavarli il meno possibile.
Il denim, ovvero il materiale di cui sono fatti i jeans, è tra i tessuti meno sostenibili che ci siano: richiede molte risorse in termini di acqua, energia e agenti chimici. Esistono delle nicchie di produzione consapevole, ma riconoscerle non è sempre semplice: ecco qualche consiglio pratico per fare degli acquisti che siano il più possibile etici e per allungare la vita dei nostri nuovi pantaloni.
Dove vengono prodotti i jeans?
Le maggiori problematiche inerenti la sostenibilità derivano dal luogo in cui un capo è prodotto, dai materiali e dalle tecnologie che vengono impiegati. Quindi, le domande fondamentali che bisogna porsi prima dell’acquisto sono tre: come e dove viene prodotto il capo e quanto costa. Il come è importante perché la qualità di un jeans è direttamente proporzionale al suo impatto sull’ambiente, mentre il dove ci fa capire se questo avviene in un paese dove ci sono delle normative che regolano la responsabilità sociale e il trattamento dei lavoratori. L’Organizzazione internazionale dei sindacati rilascia ogni anno il Global rights index, ovvero un report che assegna un rating ai territori in base alla qualità del lavoro.
Il 76 per cento del denim mondiale viene prodotto attualmente in cinque paesi: Turchia, Cina, India, Bangladesh e Pakistan che, nel 2020, hanno ricevuto tutti il peggior rating possibile. Questo significa che ai lavoratori non viene assicurato il rispetto dei diritti umani basilari. L’Italia – una delle nazioni dove si produce il restante 24 per cento – ha invece il miglior risultato. Leggere sull’etichetta di un jeans che è made in Italy, quindi, fa già la differenza.
Sono tre i processi fondamentali dietro la produzione di un paio di jeans: lavorare il tessuto (cioè il denim), tagliarlo e confezionarlo, e poi trattarlo per determinarne l’estetica attraverso i processi di lavanderia. Nella fase di manifattura si registra un minor impatto ambientale a livello di acqua e di agenti chimici, ma è maggiore a livello di emissioni. È poi un passaggio in cui, ad essere cruciale, è il costo del lavoro: la quantità di tessuto necessaria per confezionare un paio di jeans ha un prezzo medio di cinque euro; a questi vanno aggiunti il lavaggio, le rifiniture e il packaging. Va da sé che se il costo finale in negozio è di venti euro significa che i lavoratori sono stati pagati molto poco.
Come viene fatto il denim?
Il denim è sostanzialmente fibra di cotone trattata con l’indaco perché assuma la sua classica colorazione blu e poi successivamente definita esteticamente per sottrazione di colore, tramite processi di lavanderia. Un primo passo quindi è riconoscere la qualità della fibra utilizzata, cosa che possiamo fare attraverso le certificazioni che dovrebbero essere riportate sull’etichetta, e capire se si tratta di cotone organico Gots (Global organic textile standard) o se invece ci sono delle componenti di cotone riciclato Grs (Global recycle standard), entrambe valide.
Per quanto riguarda la colorazione, il discorso si fa più complicato perché l’indaco che esiste in natura (è un estratto della pianta indigofera) è una molecola troppo grossa per penetrare la fibra di cotone. La colorazione fatta con l’indaco naturale è meno stabile e richiede un utilizzo di agenti chimici dieci volte maggiore rispetto all’indaco sintetico per potersi aggrappare al cotone. L’indaco sintetico può essere in polvere o liquido: entrambi sono derivati del petrolio, ma il secondo ha una maggiore capacità di penetrazione nella fibra di cotone. La fase di lavaggio è la più critica: nei cinque paesi sopracitati vengono ancora usate le vecchie lavatrici, che fanno un uso sconsiderato di acqua, di chimici, di energia e di emissioni e, non da ultimo, non garantiscono la sicurezza dei lavoratori.
Quanta strada deve fare in totale il prodotto per arrivare fino a me?
La prima cosa da fare in vista dell’acquisto è informarsi, magari tramite il sito del brand, per capire quale sia il suo approccio alla produzione e prediligerne uno a filiera corta: meno un prodotto viaggia, minore sarà la sua carbon footprint.
Denim 100 per cento biobased e biodegradabile
L’industria mondiale del jeans vale 70 miliardi di dollari: vengono prodotti qualcosa come 1,25 miliardi di pantaloni all’anno. Questo dato rende evidente come l’impatto dell’indumento a fine vita sia un tema cruciale per valutare la sostenibilità del capo che scegliamo di acquistare. In Italia, nel Parco nazionale del Ticino, ha sede un’azienda produttrice di denim che, nel 2019, ha lanciato il primo denim al mondo 100 per cento biobased: ovvero realizzato con elementi naturali e 100 per cento biodegradabile e compostabile. La società si chiama Candiani e, nel settore, è sinonimo di manifattura green e di alta qualità. “Il percorso virtuoso dell’azienda è stato in qualche modo ‘forzato’: nel 1974 il territorio in cui sorgeva è stato dichiarato riserva naturale; a quel punto è stato necessario ripensare e riprogettare interamente la linea produttiva per non dover traslocare”, spiega il marketing manager di Candiani, Simon Giuliani.
“Questo ha portato l’azienda ad essere leader in termini di sostenibilità: dalle fibre di cotone che vengono selezionate, ai chimici utilizzati, fino alle tecnologie sviluppate in casa per tingere nel modo più ecocompatibile possibile. Però, anche nei prodotti più rispettosi dell’ambiente, rimaneva comunque un punto dolente. Puoi avere cotone organico o riciclato, tinto con indaco liquido in una linea di tintura fatta apposta per risparmiare acqua e con un metodo di lavaggio studiato per avere l’efficientamento del processo con meno acqua, meno chimici e meno energia, ma quando il capo verrà dismesso, la parte di cotone si biodegraderà, ma non la parte stretch, che è data dal filo elastico: quello può impiegare fino a duecento anni per decomporsi”.
Così è nato Coreva, l’elastomero naturale completamente biodegradabile creato dall’azienda in cinque anni di ricerca: la soluzione trovata per continuare a produrre denim stretch e farlo in maniera green. Perché il prodotto finito possa poi essere buttato nell’organico occorre però che anche le cuciture siano biobased e compostabili: la Mic – Manifattura italiana cucirini ha creato un filato misto di tencel e cotone con queste caratteristiche. A un jeans con queste componenti basta togliere i bottoni (che possono essere riutilizzati per altro) e poi si può serenamente gettare nell’umido.
Upcycled jeans
In Normandia c’è il più grande magazzino di jeans dismessi: arrivano da tutta Europa e dagli Stati Uniti e sono un’incredibile risorsa per chi si occupa di upcycling. Blue of a kind è un marchio italiano specializzato in design circolare che produce nuovi capi solo a partire da scampoli di tessuto già esistenti: o leftover o pantaloni dismessi. “Il primo passo per noi è quello di selezionare tessuti già belli, non troppo usurati in modo da non dover intervenire con lavaggi o altri processi”, racconta Fabrizio Consoli, founder di Blue of a kind.
“Interveniamo solamente per dare un taglio sartoriale mettendo all’interno una cinta precostruita, che è l’elemento tipico del pantalone sartoriale da uomo. Anche questi elementi sono tutti materiali preesistenti: avanzi di cotone o cinte di stock che non sono state usate. Per realizzare un nostro capo non viene quindi utilizzata acqua. Per capirne l’impatto reale bisogna risalire all’origine: più è lunga la strada che ha fatto per arrivare in Italia, maggiore è la sua carbon footprint, ma comunque non paragonabile a quella di un prodotto realizzato da zero”.
Certificazioni
“Ad oggi non c’è ancora nessun organo istituzionale super partes che rilasci delle dichiarazioni universali sui parametri con cui è fatto il denim, ma esistono certificazioni separate”, integra Giuliani. “Got e Grs danno un’indicazione sul tipo di fibra, mentre la Iso 14001 è la certificazione ambientale che, però, offre una valutazione in base alle regole vigenti nel paese in cui si opera (ottenerla in Italia è diverso da ottenerla in Pakistan). Quella più completa al momento è Cradle to cradle (dalla culla alla culla): è rilasciata da un’organizzazione non profit e tiene in considerazione l’intero processo produttivo: dalla manifattura alla tessitura, fino al lavaggio”.
Manutenzione
“Per far crescere il cotone necessario per realizzare un un paio di jeans servono in media 2.565 litri d’acqua e, successivamente, 20 litri per la produzione di ogni metro e mezzo di tessuto, e poi da 70 a 150 nella fase di lavanderia (Candiani ne impiega solo dieci). Ma anche contando tutto ciò, l’80 per cento dell’impatto sull’ambiente di un jeans durante il suo ciclo di vita è dato dai lavaggi domestici. Ridurre il numero di volte in cui laviamo i nostri jeans è utile per l’ambiente, ma anche per il look stesso del pantalone, fatto di un tessuto che, per la sua fattura, porta al formarsi di sfumature naturali con l’usura e che lavandolo spesso scompaiono”.
L’alternativa alla lavatrice c’è, conclude Simon Giuliani: “Mettere i jeans in freezer di tanto in tanto è un’ottima alternativa al lavaggio, perché abbatte i batteri, ma si possono anche girare inside out e mettere in una bacinella con poca acqua, un po’ di aceto e qualche goccia di ammorbidente. Una volta che i pantaloni sono stati un po’ in ammollo vanno poi spazzolati all’interno per togliere la pelle morta. In generale è utile prestare attenzione alla manutenzione del capo, iniziare con le riparazioni prima che sia totalmente sfasciato”. È un atteggiamento che nel mondo del lusso è la prassi: dovremmo iniziare ad adottarlo anche nei confronti di capi più casual.
Siamo anche su WhatsApp. Segui il canale ufficiale LifeGate per restare aggiornata, aggiornato sulle ultime notizie e sulle nostre attività.
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.
Roberta Redaelli, nel suo saggio Italy & Moda, raccoglie le voci del tessile. E invita il consumatore a fare scelte che lo spingano alla sostenibilità.
Nel mezzo di una grave crisi, il distretto tessile e dell’abbigliamento lancia l’allarme sui diritti dei lavoratori nella filiera della moda italiana.
La nostra selezione periodica di marchi responsabili nei confronti dell’ambiente e dei lavoratori.
Il magazine Öko-test ha condotto ricerche su capi di abbigliamento e accessori Shein trovando residui di sostanze pericolose. La nostra intervista ai ricercatori.
L’industria tessile si sta attrezzando per innovare se stessa e trovare soluzioni meno impattanti: la fermentazione rappresenta l’ultima frontiera moda.
Casi di appropriazione creativa e di rapporti sbilanciati nella fornitura di materie prime rendono sempre più urgente parlare di “sostenibilità culturale”.
Il Parlamento europeo ha aggiornato il report sull’impatto della produzione tessile mentre cresce l’attesa nei confronti delle prossime scelte politiche.
Sono tante e afferenti a diversi aspetti della produzione tessile: perché conoscere le certificazioni è il primo passo per fare una scelta responsabile