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La storia di Aeham Ahmad, il pianista che in Siria suonava tra le macerie
Aeham Ahmad è passato dalle strade piene di macerie ai teatri di mezzo mondo. L’intervista al pianista siriano che sente “il peso di essere sopravvissuto”.
Incontriamo Aeham Ahmad a Bergamo; possiamo percepire le sue ferite anche solo standogli accanto. Un logorìo quasi udibile nonostante il sorriso aperto, mentre ci chiede, prima di tutto, di parlare della sua gente.
Poi si siede al pianoforte, le dita corrono sui tasti per alternare melodie che squarciano a flebili ninne nanne.
“Non raccontate di me”, dice. “Raccontate della Siria, dove le persone continuano a ribellarsi al regime senza alcun mezzo a disposizione. È come se affrontassero gli eserciti impugnando delle forchette e nessuno interviene davvero”.
Dopo il lockdown Ahmad ha ripreso il suo tour serratissimo di concerti e la prossima tappa in Italia sarà il 25 luglio a Reggio Emilia.
Aeham Ahmad vive per raccontare attraverso la musica
Il pianista che suonava in mezzo alle macerie di Yarmouk, ora conteso dai palcoscenici d’Europa, si porta addosso una responsabilità quasi incomprensibile, vista da fuori. “Sento la colpa di essere sopravvissuto e di aver lasciato il mio popolo a guardare il mio successo da lontano, mentre sta ancora morendo di fame”.
Due volte rifugiato, apolide e senza possibilità di scelta
32 anni, occhi neri accesi, l’intelligenza sensibile di chi sa leggerti tra le righe con estrema naturalezza e una gestualità che racconta di uno spirito umile. La serenità però è lontana quanto la sua terra, una terra a cui non può nemmeno dire di appartenere. Rifugiato due volte, prima come palestinese nato nel campo profughi a sud di Damasco e poi in Germania dopo una fuga di 2.500 chilometri su mezzi di fortuna o a piedi, sul documento, alla voce “nazionalità” sono stampate tre X.
“XXX”: una dicitura quasi volgare e, se vogliamo, anche codarda, che significa apolide, ovvero senza cittadinanza e privo di tutti i diritti ad essa legati.
Il pianoforte che non voleva nemmeno suonare
Il suo primo libro, Il pianista di Yarmouk, è scritto con una franchezza che ti lega a doppio filo e che ritroviamo tutta quando lo incontriamo di persona. “All’inizio l’editore voleva che raccontassi principalmente del giorno in cui l’Isis ha dato fuoco al mio pianoforte in strada; mi sono rifiutato perché gli elementi centrali del libro dovevano essere Yarmouk e la Siria”.
Nelle 350 pagine, storie di morte e miseria sconfinata si intrecciano ad atti rivoluzionari di resilienza, che nella vita di Aeham Ahmad sono una costante, sin dalla nascita. A partire dall’esempio del padre, violinista cieco, che lavora come falegname e arriva a produrre liuti pregiati che vende oltre confine e che forza il figlio, ancora piccolo, a suonare il pianoforte con ogni tipo di strategia, arrivando persino a pagarlo, perché quello strumento possa diventare un giorno il suo lasciapassare nel mondo. Così è stato, anche se lo scoppio di una granata gli compromette definitivamente la mobilità di due dita della mano.
La vita sospesa tra speranza e tragedia
Suo padre lo salva anche una seconda volta, insegnandogli a nuotare. Nonostante la sua cecità, lo guida dal bordo della piscina, dandogli istruzioni precise mentre tiene l’orecchio tesissimo per cogliere il minimo segno di difficoltà. È solo perché è capace di nuotare che Ahmad si salva dal naufragio del gommone che lo sta portando a Lesbo, dopo il primo tentativo di fuga da Damasco.
Del fratello fatto sparire a un check point non sa più nulla da sette anni. Il fotografo e amico Niraz Saied [di cui pubblichiamo delle straordinarie foto d’archivio, ndr], autore dello scatto che lo ritrae con il pianoforte in mezzo alle macerie e che diventa virale fino ad arrivare alla nota emittente statunitense Cnn, è morto sotto tortura. E poi, insieme agli altri, c’è Zeinab, la bimba freddata da un proiettile alla testa mentre canta in strada nel piccolo coro di coetanee accompagnato dalla sua musica. Il video di questo coro di voci bianche pieno di speranza è ancora su YouTube.
Le domande che vogliamo fargli sono molte.
Per la foto in cui suona tra gli edifici dilaniati dalle bombe, lei è diventato il simbolo di ribellione contro la guerra, ma non era questa la sua intenzione. Può spiegarci cosa c’è dietro a quello scatto?
È una delle immagini dei giorni della resistenza nel campo profughi e, in realtà, racconta di un atto piccolo in mezzo ad azioni ben più grandi e coraggiose compiute da altri. Non ero solo e il primo pensiero va sempre al mio amico Niraz Saied che, per quella e per altre immagini che pubblicava in rete per far conoscere al mondo la realtà disumana della guerra, è morto sotto tortura dopo anni di prigione.
La nostra non era una vita bella con uno sfondo di macerie, ma una vita distrutta come tutto quello che avevamo intorno. Cercavamo un modo per alimentare una speranza anche se alla fine, nonostante la volontà di resistere, Yarmouk è stata quasi completamente rasa al suolo. Quindi la foto ritrae un luogo che oggi non esiste più e tutte le persone che da lì hanno dovuto emigrare a forza.Del resto, purtroppo, la storia è piena di movimenti di ribellione sepolti dalle macerie e dimenticati.
A febbraio è uscito in Germania il suo secondo libro, Taxi Damasco. Vuole parlarcene?
L’ho scritto a quattro mani con l’amico e giornalista Andreas Lukas. Non sono io il protagonista, ma racconta fatti e storie che mi sono arrivate negli ultimi quattro anni, direttamente dalle persone che vivono ancora a Damasco e con le quali sono in costante contatto; come il tassista, che è stato un mio allievo quando avevo la scuola di musica.
In verità, nonostante il successo del primo libro, nessuna casa editrice in Germania ha accettato di pubblicarlo. La motivazione era sempre la stessa: “Devi parlare di te – mi dicevano –. Sei tu il personaggio, altrimenti non vendiamo”. Non abbiamo ceduto e alla fine ci siamo autopubblicati investendo il nostro denaro.
Porterò avanti questo progetto ad ogni costo: la determinazione più grande è dare voce a chi non ce l’ha e su di me è già stato scritto fin troppo. Spero in un riscontro diverso dagli editori degli altri paesi e ovviamente lo proporrò presto anche in Italia.
Qual è l’errore principale, e mi riferisco anche all’opinione pubblica, che compie l’Europa nei confronti della Siria e del Medio Oriente?
L’epoca coloniale è finita, ma probabilmente non è molto cambiato il leitmotiv di sottofondo, ovvero la convinzione di una certa superiorità culturale. Penso alla retorica dell’esportazione della democrazia che è stata usata ripetutamente per la guerra in Iraq e in Afghanistan.
È chiaro che non è addossabile all’Europa la prima responsabilità di quello che sta succedendo in Medio Oriente, ma senza dubbio gioca un ruolo importante. Diversi dittatori, come al-Sisi in Egitto, sono stati approvati e sostenuti prima in Europa e questa scelta ha un peso. Fa molto male sentire i media lodare Bashar al-Assad come un presidente colto che fa il bene della nazione, mentre la verità è che la sua stessa famiglia è arrivata al potere con i proiettili e lì è rimasta, indisturbata. A questi regimi poi basta pronunciare la frase magica, la chiave che apre ogni serratura ed è lo slogan: “Noi siamo quelli che combattono il terrorismo”.
Per farla breve, il succo è che ci sono popolazioni che cercano di liberarsi dai regimi dittatoriali che però godono dell’appoggio degli stati esteri. La gente continua a ribellarsi, ma è come se lo facesse brandendo una forchetta contro eserciti e bombe. Ormai sono passati nove anni e sembra che il mondo si sia quasi stancato di sentire parlare di questa situazione.
Come stanno i suoi genitori?
Con la procedura lunga e molto faticosa del ricongiungimento famigliare sono riuscito a portarli in Germania, ora vivono con me, mia moglie e i miei tre figli. In Siria, dopo la pubblicazione del primo libro, sono stati pedinati e controllati per lungo tempo. Farli venire in Europa è stata una delle poche cose buone che sono riuscito a fare. Purtroppo invece di mio fratello Alaa non abbiamo nessuna notizia da sette anni.
Vedere una possibilità in mezzo alla desolazione, lavorare per ottenere il massimo e addirittura l’impensabile, partendo da zero. Da chi ha preso questa capacità?
Senza dubbio da mio padre, che pur essendo non vedente è diventato falegname e si è inventato lavori che molti non avrebbero mai immaginato. Probabilmente questa attitudine è anche connaturata alla condizione dei palestinesi che vivono nei campi profughi, dove non puoi fare altro che arrangiarti. Non c’è nessuno che ti aiuta, non ci sono genitori alle spalle a sostenerti economicamente, perché loro stessi hanno perso tutto prima di te.
Io sono diventato un pianista arrivando ad avere anche duecento allievi nella mia scuola, ma durante i mesi della fame nera della guerra sono finito ad inventarmi una ricetta di felafel con i soli tre ingredienti che avevo a disposizione, che friggevo e vendevo all’angolo della strada. Stavo facendo questo quando la granata mi ha colpito.
Ho messo piede in Germania con uno zaino in spalla e con una manciata di soldi in tasca; per incontrare le persone del posto chiedevo di potermi esibire gratuitamente nei locali. La musica era il modo per farmi conoscere. Oggi ho una casa che ho ristrutturato da solo, pago le tasse e non ricevo nessun sussidio dal governo. Dovessi perderla so che troverei il modo per costruirne un’altra.
Che ruolo hanno l’improvvisazione e l’istinto nella musica e nella vita?
Al conservatorio ho studiato la musica classica occidentale che, almeno dopo il periodo barocco, lascia pochissimo margine per l’improvvisazione. Al contrario la musica classica araba e orientale in genere, che ha una diversa suddivisione di toni e semitoni, veniva composta solo per l’80 per cento lasciando sempre una parte anche significativa alla libera interpretazione dell’artista.
Il pianoforte è uno strumento pensato e costruito per la musica europea, ma il mio tentativo è di interpretare melodie e canzoni del patrimonio classico e popolare del Medio Oriente, inserendo anche suoni che mi ricordano gli anni della guerra. Ora sto lavorando ad una nuova incisione con la cantante Nora Benamara.
Credo che ogni forma d’arte abbia bisogno di una libera espressione. Nella cultura a cui appartengo si vive alla giornata e l’improvvisazione è costante. In Europa, invece, pare che non si riesca molto ad improvvisare – sorride –. Ho già un concerto fissato in Spagna per il 17 Aprile del 2022. Me lo ricordo perché è il giorno del mio compleanno, ma chi lo sa dove sarò tra un paio d’anni. Forse ora, con l’arrivo del coronavirus, anche qui la gente ha imparato ad essere flessibile e improvvisare un po’ di più.
So che non sopporta di essere definito coraggioso, ma chi lo è allora?
Il coraggio è indubbiamente è una componente fondamentale per la società.
Una persona coraggiosa è il mio amico Niraz, morto per far arrivare al mondo le immagini della distruzione di Yarmouk. Le persone coraggiose sono quelle che sono uscite in strada per gridare contro il regime siriano pagandone le conseguenze, mentre io non l’ho fatto. Il coraggio è anche una forma di responsabilità. Per un giornalista ad esempio può essere scrivere verità scomode; qualcosa che il lettore non vuole sentirsi dire.
Purtroppo mi fa molto male sapere che, nella società siriana e palestinese, alcune persone mi accusano di aver sfruttato la situazione per acquisire notorietà e denaro. Dal loro punto di vista è vero, è una parte della storia e ne capisco perfettamente le ragioni. Hanno perso tutto. La ferita però invece di guarire continua a sanguinare; per questo motivo non so per quanto ancora accetterò di esibirmi. Ma renderò felice la mia famiglia, di questo sono certo e, prima o poi, sarò felice anch’io.
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