Finanza climatica, carbon credit, gender, mitigazione. La Cop29 si è chiusa risultati difficilmente catalogabili in maniera netta come positivi o negativi.
Si è aperto il primo Africa climate summit a Nairobi, in Kenya
I delegati alla prima conferenza sul clima del continente cercano di trovare un modello africano di adattamento ai cambiamenti climatici, tra investimenti esteri e la possibilità di decolonizzare il settore energetico africano.
Il 4 settembre a Nairobi, in Kenya, si sono aperti i lavori dell’Africa climate week 2023, evento annuale che riunisce i leader di governi, imprese, organizzazioni internazionali e società civile per esplorare i modi per ridurre le emissioni di gas serra e adattarsi alle crescenti conseguenze della crisi climatica. In parallelo, è iniziato anche il primo Africa climate summit il cui obiettivo è quello di trovare una posizione unitaria dell’Africa sulla crisi climatica in vista della Cop28 di Dubai e tentare di sviluppare la dichiarazione di Nairobi, un progetto per la transizione energetica dell’Africa in chiave sostenibile.
A Dubai, ci si aspetta che i leader africani spingano per l’implementazione del fondo loss and damage, discusso alla Cop27. Strategie di questo tipo saranno fondamentali per affrontare le principali conseguenze del cambiamento climatico nel continente, come le migrazioni ambientali e l’insicurezza alimentare.
Il presidente del Kenya William Ruto, che ha fortemente voluto il summit, ha dichiarato di volere che il vertice contribuisca a fornire soluzioni africane alla questione climatica. L’obiettivo è quello di trasformare il continente nella fonte della rivoluzione mondiale dell’energia verde, ma per farlo serve un ingente afflusso fondi e di aiuti per i debiti pubblici degli stati africani.
Grandi investimenti per l’Africa
Secondo gli organizzatori, durante il vertice dovrebbero essere conclusi accordi per centinaia di milioni di dollari per progetti legati alla mitigazione degli effetti del riscaldamento globale e della tutela della natura.
Negli ultimi mesi sono stati annunciati diversi accordi legati all’ambiente che coinvolgono i Paesi africani e che dovrebbero contribuire a risolvere il dilemma di chi debba pagare per combattere gli impatti dei cambiamenti climatici.
A giugno, il Portogallo ha dichiarato che avrebbe scambiato 153 milioni di dollari di debito di Capo Verde con investimenti nella natura, mentre il Gabon ha completato a inizio agosto, prima del colpo di Stato, un accordo per riacquistare 500 milioni di dollari del suo debito internazionale ed emettere un’obbligazione ecologica per espandere le sue aree costiere protette e combattere la pesca illegale.
Siccità, alluvioni e altre calamità
I Paesi africani, responsabili secondo le Nazioni Unite del 3% delle emissioni globali di CO2, sono stati gravemente colpiti da eventi meteorologici estremi e soffrono sempre più spesso di siccità, inondazioni e tempeste. La maggior parte delle regioni sono colpite, soprattutto il Sahel e il Corno d’Africa, che ha visto una siccità record.
Secondo il rapporto della World weather attribution pubblicato in aprile, il cambiamento climatico antropico ha causato un aumento della probabilità di siccità nel Corno d’Africa di 100 volte. In alcune zone del Sahel le stagioni secche si stanno allungando e le precipitazioni sono più intense, il che significa che siccità e inondazioni sono destinate a intensificarsi. Il Niger è stato duramente colpito dai cambiamenti climatici, perdendo ogni anno 100 mila ettari di terreno coltivabile a causa della desertificazione.
Secondo il rapporto del centro Tyndall per la ricerca sui cambiamenti climatici dell’università di Manchester, che esamina la ricchezza delle nazioni e la loro dipendenza dai combustibili fossili, ha concluso che i Paesi più poveri sarebbero maggiormente danneggiati da un rapido allontanamento dal petrolio e dal gas, con il rischio di instabilità politica. Ed è in base a questo studio che il gas e il petrolio non sono stati esclusi dai panel del meeting di Nairobi.
Le critiche della società civile
Le maggiori critiche sull’Africa Climate Summit e sul suo programma arrivano proprio in merito al ruolo dei combustibili fossili. Se da un lato l’obiettivo del vertice dovrebbe virare verso uno sviluppo sostenibile delle energie verdi, dall’altra ci sono stati, negli ultimi mesi, grandi investimenti delle multinazionali petrolifere nel continente.
A marzo di quest’anno, diversi membri della società civile africana e diverse Ong che si occupano di ambiente, hanno inviato una lettera aperta agli amministratori delegati di Bp, Chevron, Exxon e Shell, sull’impatto delle attività di trivellazione di Reconnaissance Energy Africa (ReconAfrica) nel bacino dell’Okavango in Namibia e Botswana.
Tra gli altri progetti, il piano di Bp per il nuovo gas in Africa occidentale rappresenta una minaccia per il clima e la biodiversità in Senegal, mentre i contratti con Eni, ExxonMobil, Bp, Shell e Total legati al progetto Coral South minacciano il Mozambico, non solo a livello ambientale, ma anche a livello sociale. Quello che viene identificato come modello di sfruttamento neocoloniale, è stato aspramente contestato anche in relazione all’agenda dell’Africa Climate Summit.
Secondo più di 500 organizzazioni della società civile africana, che hanno mandato una lettera aperta al presidente Ruto, l’attenzione del vertice si è allontanata dagli interessi delle imprese e delle priorità africane, per guardare, invece, agli interessi del nord globale, rischiando di perdere, così, l’occasione di decolonizzare il sistema energetico continentale.
Le sfide per l’Africa climate summit sono molteplici, non sarà semplice allineare le posizioni di 54 economie e delle rispettive società civili, ma se si riuscisse a trovare una posizione continentale condivisa, l’Africa arriverebbe più forte alla Cop28.
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