Nonostante la crisi climatica, in Africa si continuano a cercare fonti fossili. Che finiscono quasi totalmente alle grandi potenze europee e asiatiche.
A partire dal 2017, sono state autorizzate talmente tante nuove esplorazioni alla ricerca di petrolio e gas, in Africa, da coprire una superficie di 886mila chilometri quadrati. Una superficie pari a quelle di Italia e Francia messe assieme. A spiegarlo è un nuovo rapporto pubblicato martedì 15 novembre da Urgewald, Stop Eacop, Oilwatch Africa, Africa Coal Network e altre 33 organizzazioni non governative africane.
NEW REPORT | As Africa is becoming the "gas station" of the global North (@OmarElmawi), together with African partners we've looked at the companies driving fossil fuel expansion in Africa & reveal their investors & bankers. #COP27#DontGasAfrica 1/x pic.twitter.com/1BCaj8LsZI
Nuovi progetti fossili in 48 delle 55 nazioni dell’Africa
Il documento evidenzia come siano 200 le imprese impegnate nella ricerca di nuove fonti fossili nel continente, ma anche nella costruzione di nuove infrastrutture per il loro sfruttamento (come nel caso dei terminal per il gas naturale liquefatto, degli oleodotti o delle centrali elettriche). E perfino il carbone non viene lesinato, nonostante sia la fonte in assoluto più dannosa per il clima e per l’ambiente. Il tutto in ben 48 delle 55 nazioni dell’Africa.
Si tratta, dunque, dell’ennesima prova che, al di là dei proclami, il mondo continua a puntare sul vecchio modello di sviluppo basato sulle fossili. E attenzione: il rapporto precisa che ciò non può essere in alcun modo giustificato, nel caso africano, con la necessità di sviluppare economie ancora arretrate. Al contrario, il business as usual non fa che rallentare ulteriormente la crescita locale.
Solo un terzo dei capitali investiti viene da aziende africane
Le spese complessive per lo sfruttamento di nuovo petrolio e gas sono passate dai 3,4 miliardi di dollari del 2020 ai 5,1 miliardi di quest’anno. Ma le imprese africane hanno stanziato meno di un terzo dei capitali in questione. La stragrande maggioranza è rappresentata da investimenti di aziende straniere. E la quasi totalità della produzione è destinata all’estero: oltre il 97 per cento, ad esempio, del gas estratto finirà in Europa e Asia.
In particolare, si prevede una produzione supplementare pari all’equivalente di 16 miliardi di barili di petrolio, di qui al 2030. Il che rappresenta due anni di emissioni dell’intera Unione Europea. “Dalla Mauritania al Mozambico – ha spiegato Amos Wemanya, del think tank Power Shift Africa – la dipendenza dell’Europa dalle energie fossili rappresenta ancora un potente motore per lo sviluppo di progetti legati alla produzione di gas naturale liquefatto in Africa. Si tratta di infrastrutture il cui costo è di parecchi miliardi di dollari, e che portano i paesi del continente a indebitarsi ulteriormente e a rallentare la transizione verso le rinnovabili. Si tratta di qualcosa di negativo per il clima e anche per lo sviluppo dell’Africa”.
La scelta incoerente delle grandi potenze occidentali e asiatiche
Ciò nonostante, i governi delle grandi potenze occidentali e asiatiche preferiscono sfruttare gli oltre 17.500 miliardi di metri cubi di riserve di gas che si ritiene siano presenti in Africa. Per non parlare del petrolio. La crisi climatica è direttamente legata a queste scelte scandalose e totalmente incoerenti rispetto agli impegni assunti dai nostri stessi governi a livello internazionale.
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