Perché l’Africa centro-occidentale è una polveriera e cosa c’entra la Russia

Un golpe in Niger, uno sventato in Sierra Leone e la svolta autoritaria in Senegal. I giorni difficili per l’Africa centro-occidentale vengono da lontano.

  • Tra il 2019 e il 2023 l’Africa centro-occidentale ha vissuto nove colpi di stato, oltre a profonde svolte autoritarie.
  • Le difficoltà degli stati vengono dalla fragilità delle istituzioni democratiche, dalla crisi economica e dal jihadismo.
  • Nella regione va crescendo un sentimento anti-francese e anti-occidentale. Ad approfittarne è la Russia.

Negli ultimi giorni il l’Africa centro-occidentale è stata attraversata da tre crisi politiche di rilievo. Prima il colpo di stato dei militari in Niger con la deposizione del presidente democraticamente eletto Mohamed Bazoum. Poi l’arresto di diversi militari in Sierra Leone che stavano progettando un golpe. Infine, la svolta autoritaria del Senegal con l’arresto del leader di opposizione Ousmane Sonko e lo scioglimento del suo partito.

In realtà il periodo complesso per la regione viene da prima. Dal 2019 ci sono stati nove colpi di stato riusciti e molti altri falliti, che in alcuni casi come il Sudan hanno portato a guerre civili scandite da crimini contro l’umanità. L’area sta esplodendo per la fragilità delle sue istituzioni democratiche e per le difficoltà economiche, ma c’è dell’altro: il sentimento anti-francese di derivazione coloniale è ancora presente e chi come i militari si oppone ai governi filo-occidentali è ben visto. A banchettare in questa situazione è la Russia, che attraverso il gruppo Wagner da tempo fa proselitismo nella regione.

Niger, Africa occidentale
Bandiere russe in Niger, tra i paesi dell’Africa occidentale interessati da un golpe © Djibo Issifou/picture alliance via Getty Images

Il colpo di stato in Niger

Il 27 luglio un gruppo di militari che si è identificato come parte del Consiglio nazionale per la salvaguardia del paese ha fatto irruzione nel palazzo presidenziale del Niger, arrestando il presidente Mohamed Bazoum e prendendo di fatto il controllo del paese. Il 28 luglio Abdourahmane Tchiani, il capo della Guardia presidenziale del Niger e fedelissimo dell’ex presidente Mahamadou Issoufou, si è autoproclamato presidente.

A poche ore dall’assalto al palazzo presidenziale alcune centinaia di persone sono scese in piazza per mostrare sostegno al presidente filo-occidentale deposto Mohamed Bazoum, ma i militari hanno disperso la folla con i lacrimogeni. Allo stesso tempo ci sono state importanti manifestazioni popolari di sostegno all’autoproclamato presidente Tchiani e ai suoi fedeli autori del colpo di stato. Si sono viste bandiere russe ed è stata attaccata l’ambasciata francese.

Dopo il colpo di stato l’Ecowas, la Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale, ha fatto sentire la sua voce. I golpisti il 30 luglio hanno ricevuto un ultimatum ad arrendersi entro una settimana, altrimenti gli stati dell’area potrebbero intervenire militarmente in Niger per ristabilire l’ordine costituzionale. Oltre a questo, sono stati congelati i beni dei militari coinvolti nel golpe. Anche l’Unione africana ha dato un ultimatum ai golpisti, in questo caso di 15 giorni, minacciando l’uso della forza in caso non venisse rispettato. Il presidente francese Emmanuel Macron ha detto che risponderà immediatamente e senza trattative ad attacchi a cittadini e interessi francesi nel paese. 

Ma nella comunità internazionale c’è anche chi ha preso le parti di Tchiani e degli altri golpisti: il Mali e il Burkina-Faso hanno annunciato che qualunque intervento militare straniero in Niger verrà considerato anche un’aggressione nei loro confronti.

Il golpe fallito in Sierra Leone

Mentre in Niger si consumava la crisi politica legata al colpo di stato militare, in Sierra Leone è stato sventato qualcosa di simile. Il 31 luglio la polizia ha annunciato l’arresto di un gruppo di alti ufficiali dell’esercito, che avevano in programma di attaccare le istituzioni dello stato e rovesciare il presidente Julius Maada Bio in occasione di una serie di manifestazioni indette tra il 7 e il 10 agosto.

La Sierra Leone ha vissuto 11 anni di terribile guerra civile fino al 2002. L’economia non si è mai ripresa dopo quel periodo e gli alti tassi di disoccupazione e l’inflazione galoppante tengono in ginocchio milioni di persone, soprattutto i più giovani. Nell’agosto 2022 la gente è scesa in piazza per protestare contro il carovita e le manifestazioni si sono risolte con una strage: 27 civili e 6 poliziotti morti. Nel giugno scorso il paese è andato alle urne, a sfidarsi il presidente Julius Maada Bio, per un secondo mandato, e il leader dell’opposizione Samura Kamara. Ha vinto il primo ma gli osservatori internazionali hanno denunciato irregolarità nel voto.

Il paese vive una forte fragilità politica, economica e sociale. Gli arresti dei giorni scorsi tra le fila dell’esercito per la pianificazione di un colpo di stato ne sono la diretta conseguenza.

La svolta autoritaria del Senegal

Il 31 luglio le autorità del Senegal hanno arrestato Ousmane Sonko, leader del partito di opposizione Patrioti africani del Senegal per il lavoro, l’etica e la fraternità (Pastef) e tra i favoriti per le elezioni presidenziali del 2024. Il partito è stato sciolto.

Sonko da diverso tempo è al centro di una vicenda giudiziaria che potrebbe costargli caro. Nel 2021 è stato arrestato con l’accusa di stupro. A inizio giugno 2023 lo stupro è stato scartato e Sonko è stato condannato a due anni di carcere per “corruzione di giovani”. Poche settimane prima era stato condannato a sei mesi per diffamazione, mentre l’arresto delle scorse ore riguarda nuovi capi d’accusa. Sonko è stato messo in custodia cautelare per appello all’insurrezione, attentato alla sicurezza dello stato, associazione criminale e furto alla polizia.

I suoi avvocati definiscono l’incriminazione “una farsa” e anche gli osservatori internazionali si sono fatti sentire. La sensazione è che l’accanimento giudiziario sia stato orchestrato dall’attuale presidente Macky Sall e dal suo partito per estromettere Sonko dalla corsa elettorale e garantirsi la continuità nel potere. Il nuovo arresto ha portato migliaia di persone in piazza, così come era successo già nelle scorse settimane. In strada sono state bruciate bandiere francesi per protestare contro le relazioni tra Parigi e l’attuale presidente Sall e ci sono stati due morti. Le manifestazioni delle scorse settimane contro la svolta autoritaria del Senegal avevano avuto bilanci ancora più tragici, con decine di morti e centinaia di persone arrestate

Gli altri golpe in Africa centro-occidentale

Se per il Senegal in questi giorni si è assistito a una svolta autoritaria da parte di chi detiene il potere, per il Niger e la Sierra Leone la crisi politica è stata dettata da colpi di stato riusciti o tentati. I due paesi però non sono l’eccezione, ma le ultime tessere di un domino che si è innescato a partire dal 2019.

Negli ultimi quattro anni nell’area del Sahel e dell’Africa occidentale ci sono stati ben nove colpi di stato, mentre molti altri sono falliti.

Nel 2019 in Sudan un colpo di stato guidato dall’esercito ha destituito il presidente in carica da 30 anni Omar al-Bashir. Un dittatore che ha usato per decenni il pugno duro e la cui rimozione ha dato il via a una transizione democratica nel paese. Ma nel 2021 un nuovo colpo di stato, guidato dal generale generale Abdel Fattah al-Burhan, ha interrotto il processo e fatto risprofondare il Sudan nel caos, con una guerra civile tra i generali che detengono il potere scandita da crimini di guerra commessi dai militari contro i civili, come sottolineato anche da un rapporto di Amnesty International.

Due colpi di stato nel giro di tre anni hanno interessato anche il Mali. Nel 2020 alcuni membri dell’esercito hanno arrestato il presidente Ibrahim Boubacar Keita e alcuni membri del governo, prendendo il potere. A guidare il golpe il colonnello Assimi Goïta, che nel 2021 ha ordinato un nuovo colpo di stato, facendo arrestare il presidente Bah N’Daw e il primo ministro Moctar Ouane. Nel settembre 2021 è stata la volta della Guinea, con il presidente Alpha Condé rovesciato da un battaglione militare guidato dal tenente-colonnello Mamady Doumbouya.

Nel frattempo, ad aprile 2021, un altro colpo di stato ha riguardato il Ciad. Dopo 30 anni di governo autoritario è stato ucciso in circostanza poco chiare il presidente Idriss Déby Itno e il potere è stato preso dal generale Mahamat ‘Kaka’ Idriss Déby, figlio del presidente. L’esercito ha poi annunciato la scioglimento della Costituzione, del parlamento e del governo e la guida del paese da parte di un consiglio militare. Il Burkina Faso è invece stato testimone di ben due colpi di stato in un anno. Il primo a gennaio 2022, quando un commando guidato dal colonnello Paul-Henri Damiba ha arrestato il presidente Roch Marc Kaboré e sciolto la costituzione. Poi nel settembre 2022, quando il colonnello Damiba è stato destituito dal capitano dell’esercito Ibrahim Traore e la giunta militare al potere da gennaio è stata sciolta. 

Otto colpi di stato totali tra il 2019 e il 2022 nella regione dell’Africa centro-occidentale, a cui nel luglio 2023 si è aggiunto il nono, il Niger. Nel mezzo, molti altri golpe falliti: quello in Sierra Leone nei giorni scorsi, ma anche Guinea Bissau, Gambia, Sao Tomé e Principe, oltre che i “soliti” Sudan e Niger.

Una regione fragile

Se ognuno di questi stati testimoni di colpi di stato riusciti o falliti, o di proteste sanguinarie, presenta le proprie peculiarità, ci sono una serie di elementi in comune che spiegano le diverse crisi. Una sorta di minimo comune denominatore che è esemplificativo della fragilità dell’Africa centro-occidentale in questo periodo storico.

Intanto c’è la fragilità economica. Alcuni stati arrivano da decenni di guerre civili e di regimi sanguinari, altri no, ma tutti devono fare i conti con un sovrasfruttamento delle proprie risorse naturali da superpotenze che non lasciano che briciole, con le conseguenze della ricostruzione post-bellica e quelle economico-commerciali delle contingenze internazionali, Covid-19 e guerra in Ucraina su tutti. Dalle proteste in Senegal al colpo di stato fallito in Sierra Leone, passando per i golpe riusciti in Sudan, Mali o Niger, il tema della crisi economica è onnipresente tanto tra chi scende in piazza quanto tra chi perde o rischia di perdere il potere per mano militare. Ma non c’è solo questo.

Stati come il Mali, il Niger o il Burkina Faso devono fare i conti da anni con la realtà jihadista, che nel migliore dei casi minaccia e nel peggiore controlla intere porzioni dei territori. La guerra al terrorismo richiede molte risorse ai governi locali, spesso viene sostenuta finanziariamente e fisicamente da paesi occidentali come la Francia, ma l’insuccesso delle operazioni fa crescere il malcontento e diventa anche un’arma nelle mani dell’esercito per screditare e poi rovesciare chi guida il paese.

Altre problematiche hanno poi a che fare con le lotte intestine negli stati, tra chi detiene il potere e l’esercito. In Sudan, in Mali o anche in Niger i colpi di stato sono avvenuti a seguito di un raffreddamento dei rapporti tra i militari e i governi, con questi ultimi che avevano prospettato rimpasti nell’esercito, tra nomine nuove e destituzioni. Un altro problema riguarda poi la corruzione, dilagante all’interno di gran parte della classe dirigente dell’area e che diventa motivo di rabbia di fronte alle difficoltà economico-sociali in cui continua a trovarsi la popolazione. A fare da sfondo a tutto questo c’è la fragilità delle istituzioni democratiche, troppo spesso inclini all’autoritarismo ma anche pronte a cadere come birilli se solo c’è chi si mette d’impegno per farle cadere.

L’impronta russa in Africa

Ma c’è un altro tema che emerge osservando gli scossoni in corso nella regione. Le bandiere francesi date alle fiamme da una parte, quelle russe sventolate dall’altra.

La ferita del colonialismo nell’Africa centro-occidentale non si è mai rimarginata e permane un sentimento diffuso di risentimento nei confronti di Parigi. La Francia non c’è ufficialmente più, ma nel concreto continua a svolgere un ruolo di primo piano nella regione: lo fa dal punto di vista militare, basti pensare che fino al colpo di stato in Mali c’erano numerosi militari francesi nel paese, impegnati nella guerra al jihadismo al fianco dello stato. Lo fa sotto il profilo politico, supportando questo o quel presidente per un discorso di stabilità dell’area, ma finendo per appoggiare anche governi autoritari come nel caso della giunta militare del Ciad. Lo fa sotto il profilo economico, proseguendo con lo sfruttamento dell’area e lasciando nella popolazione locale la sensazione che per loro rimangano solo le briciole.

La Francia è presente ma la regione continua a restare in ginocchio e questo spiega il sentimento anti-francese dilagante e l’opposizione condivisa nella popolazione ai governi vicini a Parigi e dunque all’Occidente. Una crisi d’identità su cui si è ben inserita la Russia attraverso i mercenari del gruppo Wagner, che in Africa sono presenti da anni e offrono uomini e sostegno a governi e regimi nella lotta al jihadismo, ottenendo in cambio favori economici e offrendo un’alternativa all’occidente. 

Il caso più eclatante è il Mali, dove i mercenari russi danno supporto alla giunta militare insediatasi con il colpo di stato del 2022 e hanno riempito il vuoto dato dal ritiro del contingente francese. Le bandiere russe sventolate dal Mali al Burkina Faso, passando dal Niger e anche lì dove di colpi di stato non ce ne sono stati, come in Senegal, sono frutto del proselitismo russo nella regione. Questo non significa però che Mosca stia burattinando a distanza il caos della regione. Semplicemente, sta cercando di trarre i massimi benefici da questa polveriera. Non è un caso che proprio a fine luglio sia andata in scena la seconda edizione del summit Russia-Africa, a quattro anni di distanza dalla prima edizione del 2019.

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