
Lo rivela uno studio che ha analizzato i dati della Corn Belt statunitense, dove si coltiva intensivamente mais ogm: i parassiti hanno sviluppato resistenza alla coltura transgenica.
L’alimentazione a basso impatto ambientale rappresenta una delle sfide più importanti del momento. Ma secondo alcuni, l’agricoltura bio è una risorsa ancora troppo esigua e poco efficiente sul fronte delle rese per garantire una dieta sostenibile per tutti. La domanda che si sono fatti ricercatori e scienziati è se si tratti di un sistema agricolo
L’alimentazione a basso impatto ambientale rappresenta una delle sfide più importanti del momento. Ma secondo alcuni, l’agricoltura bio è una risorsa ancora troppo esigua e poco efficiente sul fronte delle rese per garantire una dieta sostenibile per tutti. La domanda che si sono fatti ricercatori e scienziati è se si tratti di un sistema agricolo in grado di soddisfare il fabbisogno alimentare sul larga scala, oppure no: oggi una risposta c’è. Uno studio del Cnrs, il National center for scientific research, realizzato in collaborazione con ricercatori di tre università europee (l’universidad Politecnica de Madrid, la Chalmers university of technology di Gothenburg, l’university of Natural resources and life sciences di Vienna), del Jrc, il Joint research centre e dell’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, ha concluso che nel 2050 l’agricoltura bio potrebbe riuscire a sfamare tutta la popolazione europea, stimata in 600 milioni di persone per quella data.
Con il titolo Rimodellare il sistema agroalimentare europeo e chiuderne il ciclo dell’azoto: le potenzialità per coniugare cambiamento alimentare, agroecologia e circolarità, questo studio indica come concretamente raggiungibili obiettivi molto ambiziosi, ad esempio il poter soddisfare il fabbisogno alimentare dell’intera Europa attraverso le colture biologiche. Queste inoltre sarebbero in grado di ridurre l’inquinamento idrico e le emissioni di gas serra.
Questa analisi pone al centro tre punti fondamentali per mettere in atto una rivoluzione agricola all’insegna dell’agroecologia. La leva principale è il cambiamento delle abitudini alimentari, in particolar modo la necessità di ridurre il consumo di carne, il che permetterebbe di limitare l’allevamento intensivo ed eliminare le importazioni di mangimi. Oggi in Europa il 55 per cento della dieta è a base di proteine di origine animale (carni, latte, uova e pesce), ovvero il doppio del consumo consigliato dalla Fao e dall’Oms. Un cambiamento positivo sia per la salute delle persone sia per la sostenibilità ambientale. L’impatto del consumo di carne è, infatti, molto alto. “Il primo obiettivo di questo cambio di dieta è la salute”, afferma Gilles Billen, uno degli autori dello studio, che aggiunge: “È noto che un consumo eccessivo di carne e latte è spesso associato a problemi cardiovascolari e a cancro del colon retto. Naturalmente contenere il consumo di proteine animali ha anche molti vantaggi per l’ambiente. Riduce l’inquinamento idrico e le emissioni di gas serra degli allevamenti intensivi”.
Il secondo intervento fondamentale è l’introduzione della rotazione delle colture, che consente di fare a meno di fertilizzanti azotati sintetici e pesticidi. “L’agricoltore su un terreno coltiverà l’erba medica, un legume che fissa l’azoto per due anni. Poi su questo stesso appezzamento coltiverà cereali che si nutriranno dell’azoto ceduto al terreno dall’erba medica. Poi pianterà un altro tipo di leguminosa, e così via”, spiega il ricercatore. Che specifica: “I legumi, come l’erba medica o il trifoglio, sono piante che invadono il terreno molto rapidamente e che impediscono alle erbe infestanti di stabilirsi”.
La terza leva necessaria per far sì che l’agricoltura biologica diventi una pratica largamente diffusa è tornare a un rapporto equilibrato tra coltivazioni e allevamenti. Oggi l’eccessiva separazione tra campi agricoli e animali sta rendendo il suolo sempre più povero di materia organica. “Quando siamo stati in grado di utilizzare fertilizzanti azotati industriali, non abbiamo più avuto bisogno di bestiame per fertilizzare i seminativi”, spiega l’esperto che aggiunge: “abbiamo specializzato eccessivamente le regioni tra coltivazione e allevamento. Questo spiega perché zone come l’Île-de-France sono dominate dalla coltivazione dei cereali, mentre altre meno fertili come la Bretagna sono specializzate nell’allevamento. Con la conseguenza che ci sono suoli impoveriti a causa dell’assenza di bestiame, e altri penalizzati economicamente dalla mancanza di raccolti”.
Lo scenario delineato dallo studio del Cnrs dimostra come sia possibile, adottando questi tre principi fondamentali, rafforzare l’autonomia dell’Europa e sfamare la popolazione prevista nel 2050, continuando comunque ad esportare cereali nei paesi che ne hanno bisogno per il consumo umano. Il tutto limitando l’inquinamento idrico e le emissioni di gas serra dovute all’agricoltura.
Tornare quindi alla complementarità tra animali e colture permetterebbe di difendere la biodiversità dei terreni e, oltretutto, contenere il declino delle api che così tornerebbero a fruire di una dieta più equilibrata in grado di fortificare il loro sistema immunitario. Secondo un altro studio del Cnrs, dell’Inrae e dell’università di La Rochelle, la vitalità e la produzione di miele delle colonie sono migliorate con la presenza di appezzamenti gestiti biologicamente intorno agli alveari toccando il + 20 per cento di api sopravvissute e + 53 per cento di miele prodotto.
Uno studio francese condotto dal Centre d’études biologiques de Chizé , parte del Cnrs, suggerisce che l’agricoltura biologica migliora significativamente anche la salute dei volatili. L’utilizzo di pesticidi, invece, induce un aumento dello stress fisiologico negli uccelli, una colorazione più spenta dei maschi (indice di cattiva salute) e una maggiore corpulenza delle femmine (segnale di alterazioni endocrine).
Infine, il rapporto dell’Institut technique de l’agriculture biologique sui benefici dell’agricoltura bio sottolinea che in assenza dell’uso di pesticidi chimici un gran numero di invertebrati, come lombrichi, coleotteri carabidi e altri microbi, tornerebbero a popolare il suolo contribuendo ulteriormente a garantire la biodiversità.
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