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Agricoltura e la poesia sono cresciute insieme. I primi agricoltori provavano amore e stupore per i doni della terra; i primi poeti cantavano questa magia.
Agricoltura e poesia sono cresciute insieme, fin dagli inizi. I primi agricoltori provavano amore e stupore per i doni dei frutti della terra, i primi poeti sentivano questa magia. E la cantavano. Siamo al principio della civiltà greca: Esiodo, contemporaneo d’Omero, compone il primo poema della storia, Le Opere e i Giorni (VIII secolo a.C.), un inno all’onestà del lavoro nei campi, alle rigogliose ricompense che spettano a chi la terra la ama e la cura, ai frutti “che la terra produce, raccolti nella giusta stagione, dono di Demetra”.
Il più grande maestro della latinità, Virgilio, con le sua poesia ha raggiunto vette inarrivabili, con le sue opere ha arricchito la nostra cultura di miti, immagini, paesaggi dell’anima. Già al suo esordio, con la raccolta di poesie Bucoliche – in italiano “campestri” – tra semplicità d’emozione e complessità di significati si coglie il suo interesse per il mistero verde della vita. Il tema delle Georgiche, composte dal 37 al 30 a.C., è proprio la lode della natura agreste, del lavoro semplice del contadino. Il canto del legame con la terra e della bontà dei suoi frutti, però, dà occasione al poeta di librarsi in aria con versi di straordinario respiro. Dal lavoro e dall’infaticabile ronzare delle api, per esempio, Virgilio trae spunto per descrivere la sua concezione del mondo vivente, dei legami fra tutte le creature, dell’ordine del mondo la cui anima, scorrendo in una miriade di rigagnoli, bagna e feconda tutti, tutto muove, e a tutte le cose dà vita, ed esse, poi, evaporano…
Ma tutta la poesia latina è infiorettata d’amore per i campi: “Io stesso, nella stagione più propizia, pianterò tenere viti… E la speranza non mi deluda ma mi offra sempre grandi quantità di grano e mosto generoso nel tino colmo”. (Tibullo, Elegie 1,1); “ecco i compagni della primavera…/ il prato rinverdisce, le acque nevose dell’inverno tacciono. / Nidifica l’uccello… i pastori pingui greggi parlano / sull’erba fresc canti di zampogna / e rallegrano il Dio che ama le mandrie / e le montagne dell’Arcadia brune…” esultava all’inizio della Primavera Orazio (Ode XII).
Ognuno di noi ricorda poi le letture a scuola delle poesie bucoliche dei nostri grandi Giosue Carducci, e Giovanni Pascoli… Ma qui ci piace ricordare poeti forse meno noti ma capaci di commoventi quadri rurali, Umberto Saba (“la casa della mia nutrice posa / tacita in faccia alla Cappella antica, / ed al bosco riguarda, e par pensosa, / da una collina alle caprette amica…”), Giorgio Caproni (“color delle palpebre / che batti come i fiori batte il vento… Il mandriano canta dolcissimamente / mentre il prato mal fiorito da autunno / abbandonano muggendo le mucche lentamente”)…
L’ispirazione è vasta, quanto il mondo da una parte all’altra. E proprio lì, dagli antipodi, dall’America Centrale, il vento caldo ci offre un vero inno all’agricoltura e alla terra fertile: è Tierra prometida, alla terra promessa, di Pablo A. Cuadra (poeta nicaraguense, nato nel 1912 e scomparso ai primi di quest’anno): “Siamo ormai nel mese delle farfalle, e attorno al grano… spuntano anche le antiche parole cadute nei solchi le voci che celebrarono il passare di questo anziano e corpulento sole… agricoltore del tempo dei nostri padri, signore delle primavere e dei suoi grandi, mansueti buoi. Voglio insegnarti, o figlio, i canti che il mio popolo ricevette dai suoi antenati”. Così si apre il canto del vecchio contadino al suo giovane figlio…
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