Cos’è l’agrivoltaico, utilizzi in Italia e nel mondo
L’agrivoltaico nasce dalla combinazione di agricoltura e pannelli solari. Occasione di incrementare l’energia solare in Italia o ennesima speculazione?
Il fotovoltaico a terra ha generato un acceso dibattito sul suo impatto: chi si oppone all’installazione dei pannelli a terra, infatti, indica nel consumo di suolo libero il principale svantaggio di questa tecnologia che, oltre a sottrarre terreno coltivabile per la produzione agricola, infrangerebbe anche i vincoli paesaggistici.
Di recente, però, si è sviluppata una nuova proposta che riguarda i pannelli solari, che coniuga attività agricola e produzione di energia rinnovabile: parliamo di agrivoltaico (o agrovoltaico), un termine che sta, appunto, a indicare l’unione tra agricoltura e fotovoltaico.
L’agrivoltaico (o agrovoltaico) risolve il tema dello spazio
Lo sviluppo delle energie rinnovabiliè cruciale per raggiungere la neutralità climaticaentro il 2050, per ridurre le emissioni di gas serra in atmosfera e contenere l’aumento della temperatura media globale entro 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali.
Per raggiungere questi obiettivi, solo per l’energia solare compresa in Europa, significa installare più o meno ogni giorno un parco fotovoltaico esteso quanto il più grande esistente oggi. A dirlo è l’Agenzia internazionale per l’energia (Iea). Eppure, il maggior limite del fotovoltaico è proprio la disponibilità di superfici.
Per quanto riguarda l’Italia, i dati raccolti da Terna (l’ente che gestisce la rete di trasmissione dell’energia elettrica), l’attuale fabbisogno di energia elettrica a livello nazionale è soddisfatto al 7,5 per cento dal fotovoltaico. Ma perché si arrivi a coprire il 60 per cento della domanda attraverso l’energia del sole, è necessaria una superficie di pannelli nell’ordine di 50mila ettari, ovvero 500 chilometri quadrati (la dimensione considera anche le esigenze di accumulo di energia): circa tre volte la superficie del comune di Milano.
Attualmente, solo il 40 per cento dei pannelli è installato sui tetti: se mantenessimo le attuali proporzioni, significa che in futuro 300 milioni di metri quadri di pannelli dovrebbero trovare posto a terra, richiedendo una superficie di 70mila ettari, cioè lo 0,6 per cento della superficie agricola italiana. Un ingombro che farebbe aumentare del 3 per cento il suolo urbanizzato totale.
L’agrivoltaico, energia solare che tutela l’agricoltura
Questo consumo di suolo nel nome della sostenibilità ambientale potrebbe apparire un sacrificio inaccettabile. Anche perché, come fa notare Legambiente in suo rapporto, finora lo sviluppo degli impianti a terra in area agricola è avvenuto a seguito della fortissima spinta degli incentivi del conto energia. Oggi, le leggi vigenti vietano l’incentivazione di nuovi impianti in area agricola, ma paradossalmente quelli senza incentivi possono essere realizzati. “Il rischio è che prenda piede un modello di business con un approccio industriale alla risorsa suolo” è la conclusione del rapporto di Legambiente.
Così, negli ultimi anni, si è affermato sempre di più il modello alternativo dell’agrivoltaico: i pannelli fotovoltaici sono installati direttamente sul campo agricolo, consentendo di coltivare sul terreno sottostante. Come ci tiene a sottolineare Legambiente, non si tratta della stessa cosa dei pannelli fotovoltaici a terra: “Pur riconoscendo come l’utilizzo di pannelli in copertura di edifici o infrastrutture sia sicuramente l’opzione primaria”, spiega Damiano Di Simine, autore del rapporto Agrivoltaico: le sfide per un’Italia agricola e solare e responsabile scientifico di Legambiente, “i numeri dimostrano che tali coperture potrebbero non essere sufficienti a soddisfare l’intero fabbisogno”.
Secondo l’associazione ambientalista, l’agrivoltaico può far diventare l’Italia un paese agricolo e solare al tempo stesso: si tratterebbe di un approccio sistematico, centrato su basi agronomiche, in grado di aumentare il rendimento delle colture. Già, perché se è vero che la verdura ha bisogno di sole per crescere, non tutte le colture hanno bisogno di molta luce. Anzi, alcune di queste possono aver più bisogno di ombra, come l’insalata. Ombreggiare le colture significa meno acqua che evapora in un campo aperto e soleggiato.
I pannelli dell’agrivoltaico (o agrovoltaico) permetterebbero ad alcune colture di soffrire meno l’esposizione di un sole sempre più caldo per via dell’intensificarsi delle temperature. L’università dell’Illinois Urbana-Champaign sta studiando la disposizione dei pannelli ideale a seconda del raccolto: ad esempio, quali colture hanno bisogno di spazi più grandi o più piccoli tra i pannelli per far passare più o meno luce solare. Anche l’altezza da terra è oggetto di studio: mais e grano avrebbero bisogno di pannelli più alti, mentre per la soia andrebbero bene quelli più bassi.
Più in generale, i pannelli installati su un campo agricolo potrebbero aumentare la produttività delle colture dal 35 al 73 per cento, a seconda del tipo di coltura e dell’impianto installato. Un beneficio sia per l’azienda agricola che per il territorio, che verrebbe utilizzato meglio, senza sprechi e diminuendo l’utilizzo di fitofarmaci.
Di differente avviso è Enzo Cripezzi, coordinatore Lipu per Puglia e Basilicata, secondo il quale a fare le spese dell’agrivoltaico sarebbero le peculiarità paesaggistiche e le specie faunistiche ad elevata importanza conservazionistica, che usano gli agroecosistemi come risorse per la nutrizione, la riproduzione e la sosta.
“Si assiste a una sostanziale sottrazione di territorio vitale per diverse specie di animali” spiega Cripezzi a LifeGate, “tra cui l’occhione, l’allodola, diverse specie di rapaci come il falco grillaio o il nibbio reale, in alcuni casi anche la ghiandaia marina e la pernice di mare”. Oltre agli uccelli, l’effetto di questi impianti impatterebbe anche su rettili, anfibi, tassi, istrici e lupi.
“Senza parlare degli effetti indotti dagli impianti di illuminazione perimetrale di cui tali opere sono spesso corredate o dalle opere accessorie quali piste, sottostazioni elettriche, elettrodotti che a loro volta possono confluire in grandi stazioni elettriche di medie e grandi dimensioni realizzate ex novo a causa della scarsa magliatura elettrica presente in aree rurali” continua il coordinatore.
“Secondo i dati Istat, tra il 1995 e il 2005 sono stati urbanizzati più di 750 mila ettari di suolo. Tale quantità sarebbe sufficiente a ospitare gli impianti necessari a garantire la transizione energetica senza consumare nuovo suolo”, conclude Cripezzi.
Perché non coprire le superfici già urbanizzate?
In Italia, più del 7 per cento dell’intero territorio nazionale è cementificato (dati Ispra): stiamo parlando di 2 milioni di ettari già urbanizzati, impermeabilizzati, compromessi. La domanda che sorge spontanea è: perché non usare le superfici già urbanizzate del territorio, per esempio strade, abitazioni, capannoni, parcheggi, industrie?
“Non possiamo nasconderci che tali superfici sono soggette a molti vincoli: artistici, paesistici, fisici, proprietari, finanziari, civilistici, amministrativi, condominiali, ecc. i quali rendono difficile la solarizzazione completa dei tetti degli edifici”, riprende Di Simine. “Sicuramente si dovrà fare tutto il possibile in termini di incentivi e semplificazioni per spingere le installazioni sui tetti, anche attraverso la costituzione di comunità energetiche, tuttavia il fattore tempo è destinato ad essere sempre più imperativo con il procedere della crisi climatica, e la somma di una moltitudine di installazioni in copertura difficilmente potrà affrontare in modo efficace l’esigenza di una rapida e diffusa riconversione dell’intero sistema di generazione”.
A tal proposito, il Piano nazionale di ripresa e resilienza destina 1,1 miliardi di euro, da qui al 2026, a sostegno dello sviluppo dell’agrivoltaico. Sebbene la destinazione di queste risorse sia vincolata alla valutazione dell’impatto delle strutture sui campi agricoli, già si sta assistendo a una deriva distorta dei pannelli solari a terra: su internet, infatti, si sono moltiplicati gli annunci da parte di società energetiche disposte a pagare fino a 3 mila euro a ettaro per l’affitto di campi dove installare il solare. Non sono pochi i contadini, soprattutto nelle zone agricole meno redditizie, che hanno scelto di destinare il proprio terreno alla “coltivazione” di energia solare piuttosto che di prodotti agricoli, facendo perdere produzioni agricole importanti.
L’alternativa è il petrolio?
“L’agrivoltaico non è il fotovoltaico utility scale: nel primo caso, al centro c’è l’agricoltore, nel secondo l’operatore energetico” conclude Di Simine. “Le configurazioni dell’agrivoltaico sono diverse e seguono le esigenze del contadino: c’è chi installa i pannelli nelle vigne e chi li usa per l’allevamento di ovini. Parliamo di impianti che in genere ricoprono superfici modeste, perché possano fungere anche da strumenti di redistribuzione delle risorse economiche tra agricoltori, e non generando solo vantaggi per i latifondisti”.
Di Simine non esclude che anche il fotovoltaico a terra, se fatto bene, può generare vantaggi. “È necessario bilanciare pro e contro. A ben vedere, in alcune zone, è più sostenibile un parco fotovoltaico che la monocoltura del mais. Non discredito nessuna delle proposte esistenti, perché dati gli obiettivi di sostenibilità prefissati, alcune modificazioni del paesaggio sono da mettere in conto. Capisco l’atteggiamento contrario tout court ma l’alternativa, a fronte della crescita di domanda di energia, in questo momento sono i combustibili fossili”.
Insomma, il dibattito è aperto. Ma c’è un aspetto che dovrebbe mettere d’accordo tutti, ovvero la necessità di ridurre lo spreco di energia. Perché se è vero che la domanda di energia è in costante crescita, lo sono anche le sue dissipazioni (un’esempio su tutti? L’illuminazione pubblica), pertanto bisognerebbe agire anche su questi aspetti, il prima possibile. E allora, forse, l’estensione di superficie necessaria a ospitare tutti i pannelli di cui abbiamo bisogno sarebbe nettamente minore.
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