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Agromafie, così la criminalità “infesta” l’agroalimentare italiano
Il volume d’affari complessivo annuale dell’agromafia è salito a 21,8 miliardi di euro con un balzo del 30 per cento nell’ultimo anno e questa stima è ancora largamente approssimativa per difetto, perché restano inevitabilmente fuori i proventi derivanti dagli investimenti effettuati in diverse parti del mondo dalle organizzazioni criminali. Lo spiega il Rapporto Agromafie 2017 di
Il volume d’affari complessivo annuale dell’agromafia è salito a 21,8 miliardi di euro con un balzo del 30 per cento nell’ultimo anno e questa stima è ancora largamente approssimativa per difetto, perché restano inevitabilmente fuori i proventi derivanti dagli investimenti effettuati in diverse parti del mondo dalle organizzazioni criminali. Lo spiega il Rapporto Agromafie 2017 di Coldiretti, Eurispes e Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare, secondo cui sono in aumento i fenomeni di racket, usura, danneggiamento, pascolo abusivo, estorsione nelle campagne mentre nelle città, silenziosamente, i tradizionali fruttivendoli e i nostri fiorai sono quasi completamente scomparsi, sostituiti i primi da egiziani e i secondi da indiani e pakistani: il dubbio che insinua il rapporto è che tanta efficacia organizzativa possa essere, spesso, il prodotto di una recente vocazione mafiosa per il marketing.
Una procura europea contro i clan
#Coldiretti: Da Riina ai Piromalli, le mani delle mafie sui prodotti agricoli https://t.co/JE4vgjeCwo #Agricoltura #Agromafie #Statistiche pic.twitter.com/cuBcEuLq7h
— mediacalabria (@mediacalabria) 14 marzo 2017
Dati che fanno dire al vicepresidente del Consiglio superiore per la magistratura Giovanni Legnini e al ministro della Giustizia Andrea Orlando che “se i fenomeni si internazionalizzano, va da sé che gli strumenti e le normative e devono tendere anche loro a una dimensione sovranazionale. C’è bisogno di una procura europea, l’Italia è in prima linea in questa battaglia anche se purtroppo questo sforzo non è assecondato da tutti i Paesi europei”. Dalle infiltrazioni nel settore ortofrutticolo del clan Piromalli all’olio extra vergine di oliva di Matteo Messina Denaro fino alle imposizioni della vendita di mozzarelle di bufala del figlio di Sandokan del clan dei Casalesi e al controllo del commercio della carne da parte della ‘ndrangheta e di quello ortofrutticolo della famiglia di Totò Riina, i più noti clan della criminalità si dividono il business della tavola mettendo le mani sui prodotti simbolo del Made in Italy.
Oltre 200mila controlli fatti dalle forze dell’ordine nel 2016 per combattere le #agromafie e garantire primato nella sicurezza alimentare
— Coldiretti Giovani (@ColdirettiG) 14 marzo 2017
Ristoranti e supermercati nel mirino
La filiera del cibo, della sua produzione, trasporto, distribuzione e vendita, ha tutte le caratteristiche necessarie per attirare l’interesse di organizzazioni che hanno scoperto i vantaggi della globalizzazione, delle nuove tecnologie, dell’economia e della finanza 3.0. Sul fronte della filiera agroalimentare le mafie, dopo aver ceduto in appalto ai manovali l’onere di organizzare e gestire il caporalato e altre numerose forme di sfruttamento, condizionano il mercato stabilendo i prezzi dei raccolti, gestendo i trasporti e lo smistamento, il controllo di intere catene di supermercati e di ristoranti (si calcolano oltre 5.000 locali, con una più capillare presenza a Roma, Milano e nelle grandi città, l’esportazione del nostro vero o falso Made in Italy, la creazione all’estero di centrali di produzione dell’italian sounding e la creazione ex novo di reti di smercio al minuto.
Un fenomeno ormai diffuso anche al nord
La graduatoria delle province italiane rispetto all’estensione e all’intensità del fenomeno agromafia nel 2016, se fotografa una concentrazione del fenomeno soprattutto nel Mezzogiorno, evidenzia la presenza nella top ten di rilevanti realtà del Nord come Genova (soprattutto a causa di un diffuso sistema di contraffazione ed adulterazione nella filiera olearia) e Verona (per il fenomeno dell’importazione di suini dal Nord Europa e indebitamente marchiati come nazionali e per l’adulterazione di bevande alcoliche e superalcolici come nel caso della rinomata grappa locale) rispettivamente al secondo ed al terzo posto dopo Reggio Calabria per i traffici finalizzati al ricco business del falso Made in Italy. Il ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina ha avvisato che “occorre non abbassare mai la guardia per quanto riguarda tutta la filiera dell’agroalimentare: purtroppo i temi legati alle infiltrazioni della criminalità organizzata anche in agricoltura non vedono più differenze tra nord e sud del paese e nessun territorio si può dire fuori da questa minaccia”.
Il caporalato nel piatto
Dal riso asiatico alle conserve di pomodoro cinesi, dall’ortofrutta sudamericana a quella africana in vendita nei supermercati italiani fino ai fiori del Kenya, quasi un prodotto agroalimentare su cinque che arriva in Italia dall’estero non rispetta le normative in materia di tutela dei lavoratori – a partire da quella sul caporalato – vigenti nel nostro Paese. Si stima che siano coltivati o allevati all’estero oltre il 30% dei prodotti agroalimentari consumati in Italia, con un deciso aumento negli ultimi decenni delle importazioni da paesi extracomunitari dove non valgono gli stessi diritti sociali dell’Unione Europea. Riso, conserve di pomodoro, olio d’oliva, ortofrutta fresca, zucchero di canna, rose, olio di palma sono solo alcuni dei prodotti stranieri che arrivano in Italia e che sono spesso il frutto di un “caporalato invisibile” che passa inosservato solo perché avviene in Paesi lontani che sfruttano il lavoro minorile, che riguarda in agricoltura circa 100 milioni di bambini secondo l’Organizzazione internazionale per il lavoro.
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