Profilazione razziale, xenofobia nel dibattito politico e omofobia nel report dell’Ecri. Tra le sue richieste c’è quella di rendere indipendente l’Unar.
Alla luce del sole
Roberto Faenza racconta la storia di Pino Puglisi, parroco di Palermo assassinato dalla mafia.
Era un uomo solo, disarmato. Per fermarlo, per strada l’assasino grida “padre”, perché era un sacerdote. L’assassino, 28 anni, 13 omicidi alle spalle, teneva in pugno una pistola col silenziatore. Un altro, mentendo, disse: “È una rapina”.
L’uomo disse solo tre parole: “Me lo aspettavo”.
Sorrise, come faceva sempre con tutti.
E fu l’ultimo dei suoi sorrisi.
Chiamato nel 1990 dal vescovo di Palermo a occuparsi della parrocchia di un quartiere alle porte della città, Brancaccio, in meno di due anni riesce a costruire un Centro di accoglienza e coadiuvato da un gruppetto di volontari, giorno dopo giorno raccoglie dalla strada e dalla perdizione decine di piccoli innocenti.
Presto capisce che per incidere in quel tessuto disgregato bisogna fare e dare di più. Significava scontrarsi contro l’inerzia e l’incomprensione della burocrazia locale: per avere una rete fognaria, una scuola, un distretto sanitario, tutte cose che a Brancaccio mancano da sempre. Inevitabilmente il suo percorso lo porta a entrare in conflitto con gli interessi del potere mafioso, che da decenni domina la vita quotidiana del quartiere. Sono gli anni delle stragi di Capaci e di via d’Amelio, dove nello spazio di pochi mesi perdono la vita i giudici Falcone e Borsellino insieme a tanti altri.
Proprio gli stessi clan che organizzano le stragi si trovano di fronte quel prete indomabile, quel parroco che insegna ai ragazzi a credere in un mondo diverso, a non sottostare alla sopraffazione.
Lo avvertono: bruciano le case dei suoi collaboratori, incendiano la chiesa; lo minacciano, cercano di fare il vuoto attorno a lui, ma la sua fede non cede alle intimidazioni. E allora per toglierlo di mezzo non resta che la strada della viltà estrema.
Questa è la storia di don Pino Puglisi, ricostruita dopo dieci anni di ricerche, testimonianze, confidenze.
Fu assassinato il 15 settembre 1993, il giorno del suo compleanno, perché sottraendo i bambini alla strada, li sottraeva al reclutamento dei boss, che nel rione di Brancaccio, dove era nato, hanno creato da tempo immemorabile un vero e proprio vivaio di manovalanza criminale. Ma se don Puglisi fu giudicato da Cosa Nostra una fastidiosa presenza della quale liberarsi brutalmente, il suo assassinio fu in realtà l’epilogo di una lunga catena di incomprensioni e silenzi da parte di troppi, persino degli intellettuali “schierati”, abituati a esaltare gli eroi di cartapesta e a dimenticare gli umili che lavorano in silenzio.
Questa storia si potrebbe definire un caso di forzata solitudine. La solitudine dell’uomo che lotta per i suoi ideali, determinato sino al sacrificio.
“L’uomo che sparava dritto”, lo chiamavano i suoi parrocchiani, tanto alieno al compromesso era il suo credo. “Non sono un eroe”, diceva di sé, ben sapendo che per la sua attività era stato condannato a morte.
Ai bambini, al tentativo di offrire loro la possibilità di crescere in un mondo migliore, ha dedicato la sua vita don Puglisi, per gli amici e i seguaci soltanto Pino, oggi in cammino verso il processo di beatificazione in quanto martire: citato più volte dal Papa, additato ad esempio da un numero crescente di giovani, credenti e non credenti.
Dal suo insegnamento emerge una ineguagliabile lezione d’amore per la giustizia e la non violenza, insieme a un forte messaggio
pedagogico. Ma non sono solo questi i motivi che possono spingere un regista a realizzare un film su una materia tanto incandescente.
Nota di produzione: “C’è, in fondo, il desiderio di portare alla platea più vasta possibile e non solo italiana la conoscenza di una vicenda che ci coinvolge tutti. Per un desiderio forse impossibile di risarcimento abbiamo scelto di raccontarla.
Perché raccontare l’impossibile è la forza e insieme la grande sfida del cinema”.
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