Il sistema zootecnico sta rubando le risorse naturali alle generazioni future, ma invertire la rotta si può, a partire dall’Europa. L’indagine di Greenpeace.
Non è una novità: da tempo sappiamo che gli allevamenti intensivi non sono sostenibili poiché comportano un enorme consumo di risorse naturalicome suolo e acqua e contribuiscono in gran parte alle emissioni nocive per l’ambiente. Ma per la prima volta, uno studio condotto da un team di ricerca dell’Università degli Studi della Tuscia insieme a Greenpeace Italia ha cercato di stimare l’impatto degli allevamenti intensivi italiani. Ne è emerso un quadro che evidenzia come il sistema agricolo e zootecnico siano insostenibili e stiano consumando una volta e mezza le risorse naturali dei terreni agricoli italiani.
Un’Italia non basta, ne servirebbe una e mezza
Il metodo utilizzato nello studio dell’Università della Tuscia è quello dell’impronta ecologica, un indicatore in grado di esprimere l’impatto di un dato settore (in questo caso gli allevamenti), confrontandolo con la capacità del territorio in cui è inserito di fornire risorse per compensare tali attività (nel caso specifico, compensare le emissioni degli animali allevati).
I risultati hanno rivelato che gli allevamenti in Italia stanno consumando il 39 per cento delle risorse naturali del territorio agricolo italiano solo per compensare le emissioni di gas serra derivate da deiezioni e fermentazione enterica degli animali allevati e che l’impatto ambientale dell’insieme delle attività di coltivazione e di allevamento è pari a circa una volta e mezza le risorse naturali messe a disposizione dai terreni agricoli del Paese. Insomma, un’Italia non basta per bilanciare le emissioni del settore ed esiste un deficit fra domanda e offerta di risorse naturali.
Lombardia, il caso emblematico
La maglia nera dello studio va alla Lombardia dove dove il settore zootecnico sta divorando il 140 per cento della biocapacità agricola della regione. In altre parole, la Lombardia dovrebbe avere una superficie agricola di quasi una volta e mezzo quella attuale solo per assorbire le emissioni degli animali allevati sul suo territorio. E questo è dovuto a un’elevata densità di capi in un territorio con limitata bioproduttività. Alla Lombardia seguono il Veneto, dove gli allevamenti consumano il 64 per cento delle risorse naturali agricole, il Piemonte (56 per cento) e l’Emilia Romagna (44 per cento). Guardando al Sud, prima per consumo tra le regioni del Mezzogiorno è la Campania (52 per cento).
Dallo studio è emerso anche che, considerando le risorse complessive di ogni regione (la capacità di assorbimento di foreste, zone umide e delle aree naturali in generale), in alcune regioni le aree forestali riescono meglio a bilanciare il peso della zootecnia. È questo il caso del Trentino Alto Adige e della Valle D’Aosta, al contrario invece di quello che avviene in aree più antropizzate come il Bacino Padano, da cui dipende il 58 per cento dell’impronta ecologica nazionale degli allevamenti italiani.
Risorse sottratte alle generazioni future
Alla domanda su come sia possibile consumare più risorse di quelle disponibili risponde Silvio Franco, docente del Dipartimento di economia, ingegneria, società e impresa dell’Università della Tuscia e curatore dello studio. “Il processo è semplice: stiamo immettendo nell’ambiente più emissioni e scarti di quello che l’ambiente è in grado assorbire, quindi stiamo regalando a chi verrà dopo di noi una serie di problematiche ambientali senza dare loro le risorse per riuscire a gestirle”. La soluzione? Innanzitutto ridurre il consumo di risorse adottando tecniche di allevamento meno impattanti specie nel caso delle vacche da latte, per esempio. In secondo luogo ridurre il numero dei capi allevati, ma questo sarebbe possibile solo parallelamente a una riduzione dei consumi, quindi a un cambio nello stile di alimentazione che diminuisca il consumo di prodotti di origine animale.
Un appello all’Europa per una svolta green
Il problema non è solo italiano. Come riportato da Greenepeace, in tutti i Paesi europei almeno l’80 per cento delle emissioni di CO2 equivalente del settore agricolo è dovuto agli allevamenti. E lo studio arriva in un momento in cui il Parlamento europeo sta discutendo la riforma della Pac (Politica agricola comune) e i finanziamenti ad agricoltura e allevamenti. L’ambizione è che sia in linea con il green deal europeo, dunque che segni una svolta verde e di contrasto ai cambiamenti climatici.
“Ad oggi un terzo dei fondi Pac finisce nelle tasche di appena l’1 per cento delle aziende agricole europee, mentre tra il 18 e il 20 per cento del budget annuale dell’Europa è destinato ad allevamenti intensivi e mangimistica”, spiega Federica Ferrario, responsabile Campagna agricoltura e progetti speciali di Greenpeace Italia. “Chiediamo che il prossimo voto del Parlamento europeo segni un’inversione di rotta: meno fondi al sistema degli allevamenti intensivi e più risorse per le aziende sostenibili e per la riconversione ecologica del settore. Sarebbe da irresponsabili non investire in una vera transizione ecologica“.
Serve una sostenibilità a tutto tondo
Una transizione ecologica che in realtà dovrebbe riguardare molte delle nostre attività, non solo il settore agricolo e zootecnico. Come riportato, ancora, da Greenpeace, l’umanità consuma infatti il 60 per cento di risorse in piùdi quante la Terra possa rinnovare: in pratica è come se utilizzassimo più di una Terra e mezza. In questo senso, per invertire la rotta, oltre alla decisione sulla Pac, i fondi europei del Recovery fund potrebbero rivelarsi un’opportunità poiché almeno il 37 per cento delle risorse erogate ai Paesi per la ripresa dovrà essere investito nel green deal e quindi in azioni volte a promuovere l’uso efficiente delle risorse passando a un’economia pulita e circolare e a ripristinare la biodiversità e ridurre l’inquinamento.
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