La raccolta differenzata tocca quota 66,6 per cento a livello nazionali, con disparità territoriali ancora forti ma in diminuzione. Aumenta l’export.
Cosa dobbiamo imparare dall’alluvione delle Marche del 2022
Il problema è sociale, non scientifico: il caso dell’alluvione delle Marche del 2022 è lo specchio del rischio di disastri ambientali causati da abusivismo edilizio e mancata cura del territorio.
“Sentivo le onde del mare”, mima la signora Rosa. Con la mano disegna il dorso del fiume che si è portato via Pianello di Ostra: dov’è passato si è appiccicato ai capelli delle persone, ai vestiti sparsi in giro, alle foglie degli alberi, strappando con la sua violenza qualche ramo. Poi si è mangiato i campi, i raccolti, ha circondato le abitazioni, ed è entrato in casa. “Era un muro di fango”, gesticola Fabrizio, che vede scorrere a un palmo dalla sua faccia, fuori dalla finestra. L’alluvione delle Marche del 2022 ha trascinato via tutto quello che ha trovato per la sua strada, compresa la vita di 12 persone: quella precedente, del 2014, fece tre morti, incanalandosi nella medesima valle, quella del Misa.
Rischio disastri, cosa ci insegna l’alluvione delle Marche del 2022
Nelle Marche nella sera di giovedì 15 settembre l’intensità della pioggia registrata al pluviometro di Cantiano è risultata essere la più intensa degli ultimi dieci anni, secondo l’Istituto di ricerca per la protezione idrogeologica del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr): sull’Appennino sono caduti più di 400 millimetri d’acqua, un terzo di quello che normalmente piove in un anno intero. A Senigallia “l’acqua è arrivata da dietro, come un’onda”, spiega Raffaella, un’alluvionata, defluendo nel mare fino a un certo punto, poi si è fermata: i detriti che c’erano nel fiume Misa hanno fatto da tappo, ed in quel momento la città si è riempita di terra, detriti, e rimasugli di pioggia.
Nell’alluvione di otto anni fa il fiume inondò la porzione sud di Senigallia, sotterrando interi quartieri sotto il peso dei resti della vallata e delle abitazioni: otto anni dopo la zona colpita è più estesa, tanto che nei primi giorni dal disastro i soccorsi faticano a raggiungere le case, ed interi quartieri, frazioni, rimangono isolati e dimenticati, perché non si riesce a quantificare il danno. La notte del 15 settembre è crollato il ponte Garibaldi, già segnato da alcuni problemi che ne avevano compromesso la fruibilità per i mezzi pesanti, e doveva essere abbattuto e ricostruito. Il Misa divide Senigallia in due parti esatte: dove si estingue la luce la città è sommersa dalla notte, e per giorni, quando la sera scende sul giorno, si respira solo l’odore del fango che marcisce nelle strade. La rabbia sibila tra le persone, perché gli errori sono sotto gli occhi di tutti.
A margine dell’alluvione Massimo Olivetti, il sindaco, ha dichiarato che mancava da pulire l’ultimo pezzo di fiume, quello che attraversa la città e che ha esondato: “Era in programma”. Tuttavia, dei fondi stanziati dal ministero dell’allora Transizione ecologica, nel 2021, pari a oltre dieci milioni di euro per interventi finalizzati alla mitigazione del dissesto idrogeologico nella regione Marche, nulla è stato destinato al Misa, da sempre considerato fragile. Secondo l’ultima analisi Istat sul dissesto idrogeologico nelle Marche, a Senigallia sarebbero 9.791 le persone che vivono in aree a pericolosità idraulica media, dietro solo a Pesaro, che conta 12.224 persone. “Non è stato dato l’allarme”, lamentano i comuni, ma il punto è un altro: perché non vogliamo leggere i cambiamenti climatici?
Secondo Eleonora Gioia, docente a contratto del Laboratorio di Riduzione rischio disastri del dipartimento di Scienze della vita e dell’ambiente dell’Università Politecnica delle Marche, bisogna anzitutto fare una distinzione tra concetto di pericolo e di rischio. “Mentre la pericolosità è la probabilità che un evento di qualsiasi tipo si verifichi, e comprende l’aspetto fisico del territorio, il rischio considera sia l’aspetto fisico, che il territorio dove questo pericolo si va ad attuare: qui la vulnerabilità può essere fisica, ad esempio il tipo di casa che costruiamo in un territorio soggetto a terremoti, o sociale, come una zona abitata da persone anziane”. Nella disciplina “Riduzione del rischio disastri“, che mira a ridurre gli impatti dei disastri utilizzando un approccio sistemico, la comunicazione è una parte fondamentale. “Quando si verifica un’emergenza la percezione del rischio è più alta, e si apre la ‘finestra di opportunità’, che non è solo una possibilità economica per via degli aiuti che arrivano, ma è un’occasione per comunicare. Questo è il momento in cui possiamo ricercare e studiare, e capire come avviare ad un dialogo efficace tra le componenti che intervengono nel rischio, quindi tra le istituzioni, i cittadini, e gli scienziati”. Il punto è adattare il tipo di informazione alle diverse scale della comunità: “se io devo comunicare a un gruppo di giovani, di adulti e di anziani ho diverse modalità, che magari vogliono arrivare allo stesso principio”. Per affrontare questi eventi è necessario avvicinare le persone alla conoscenza del luogo dove si vive, per capire a cosa si è potenzialmente soggetti e di conseguenza quali meccanismi attivare nelle diverse emergenze.
Il problema dell’abusivismo edilizio
L’alluvione è il risultato di un’irresponsabilità da parte dell’homo sapiens col suo territorio per Fausto Marincioni, professore ordinario del Laboratorio. “Qualcosa di molto più grosso sta avvenendo a livello di ambiente generale. E il clima è quello che reagisce per primo, è il più dinamico perché stiamo parlando dello strato esterno della superficie terrestre, ma cambiamenti importanti stanno avvenendo anche nel sottosuolo, a livello di acqua e a livello biologico. Ci troviamo a dover affrontare un ambiente fisico che si sta adeguando a nuove condizioni di equilibrio, alle quali facciamo fatica ad adattarci”. La risposta al disastro sta in una foto scattata dai soccorritori in volo per delle ricognizioni nelle aree colpite, che mostra la piana alluvionale del Misa: “Il fiume crea questi spazi per parcheggiare l’acqua in eccesso quando un evento a monte, come quello che abbiamo visto, si verifica, e il fatto che esiste vuol dire che anche in passato sono avvenute delle alluvioni”. Il problema non è nel fiume che straripa, spiega Marincioni, ma nell’uomo che ha edificato in quelle zone senza pensare. “Senigallia è stata costruita sul delta del Misa, che è la zona di transizione tra il mare e il fiume. Le piane alluvionali sono belle, e sono comode da usare, ma hanno un costo: il pericolo idraulico”. È necessario ‘aggiustare’ il territorio con interventi di retrofitting, ossia di messa a punto, perché il danno è compiuto, e si può solo ridurre l’esposizione ai rischi di queste aree. “Le persone andrebbero educate a questo. Non sappiamo più leggere la natura perché abbiamo sviluppato uno stile di vita scollegato dai suoi cicli. Il problema è sociale, non scientifico: se noi basiamo tutta la nostra sicurezza sulla tecnologia ci illudiamo, perché questa è un artefatto umano e come tale può fallire, e i disastri continuano a rammentarcelo”.
Messe in salvo le rimanenze, dopo l’alluvione ci si affretta: il tempo è poco e il fango è maligno, quando si secca e si asciuga diventa come cemento. L’esperienza del 2014 insegna una cosa, che i processi di autorganizzazione e gestione immediata degli interventi sono la cosa più efficace, perché i provvedimenti più seri seguono i tempi della burocrazia per organizzarsi. A Senigallia arrivano volontari dalle frazioni vicine, dalle città poco distanti, organizzazioni delle regioni confinanti: bambini, giovani, adulti, anziani lavorano a testa bassa tra uno scroscio di pioggia e l’altro, e con i giorni che passano la stanchezza inizia a mordere le gambe. Lo Spazio autogestito Arvùltura, le Brigate volontarie per l’emergenza delle Marche, insieme alle Brigate di solidarietà attiva, creano un punto base per coordinare gli aiuti e smistare chi arriva dove c’è più bisogno. “Con i mezzi che abbiamo, che non sono professionali, aiutiamo le persone grazie anche alla conoscenza del territorio e il contatto diretto. È la forza della solidarietà”.
Alla Caritas si raccolgono abiti, sacchi, stivali e saponi, al Seminario cittadino si porta tutto quello che può essere utile agli sfollati, o a chi, semplicemente, in casa non ha più nulla. Su ‘Vougghe Marche’, pagina di intrattenimento locale, ci si trova per scambiarsi informazioni: dove andare, chi è disponibile ad aiutare, dove c’è più bisogno in quel momento, perché nell’epoca dei social ci si coordina online. Anche l’Ordine degli Psicologi delle Marche si attiva per fornire risposte e interventi alla popolazione, perché “l’impatto è catastrofico. La popolazione ha vissuto ore di terrore sia per quello che è successo nella prima esondazione, sia per quello che è accaduto nelle ore successive”, quelle in cui si comunicava l’allerta per il sabato successivo, il 17 settembre, in cui era prevista la seconda bomba d’acqua. Se il trauma si sviluppa nel tempo, spiega Katia Marilungo, presidente dell’Ordine regionale, “il ripetersi dell’emergenza non fa vivere sogni tranquilli, soprattutto quando poi si è appesi a delle previsioni meteorologiche, quindi a delle situazioni a cui è difficile sottrarsi”, specifica. E a tre mesi dall’alluvione, quando piove, Senigallia continua a gonfiarsi d’acqua: chi può permetterselo trema dietro le mura della propria casa.
Nella psicologica dei disastri, spiega Marincioni, è descritta una condizione ben chiara: “Succede sempre agli altri. Dopo la disgrazia c’è la ricerca del capro espiatorio a cui dare la colpa e fare tana libera tutti. Il nostro compito è quello di comunicare alle persone cose che non vogliono sentire, chiedere loro di spendere risorse e tempo che forse non hanno voglia di investire, per prepararsi a un qualcosa che noi diciamo essere imminente, ma che loro non credono che realmente avverrà, perché i disastri succedono sempre agli altri, e mai a noi”. E per assurdo, la troppa esposizione a certi fenomeni produce un’assuefazione, “passiamo dall’essere completamente ignari, alla disperazione del non si può fare più niente”. Nello scarica barile che la politica fa sui tecnici, tuttavia, il problema cardine è che Senigallia è stata costruita nel posto sbagliato, e non è stata protetta in modo adeguato. “Non è la comunicazione della Protezione civile che avrebbe cambiato le sue sorti. La responsabilità va cercata nel nostro modo di affrontare e vivere il territorio, dove ognuno fa la sua parte. È una questione fondamentalmente di natura culturale che non può essere risolta con la tecnologia, con l’allarme o con l’ultimo mezzo, perché aiutano ma non risolvono. Noi come riuscire a comunicare in maniera più efficace il rischio ancora non l’abbiamo capito”, continua Marincioni. Il nodo del problema è riuscire a ‘scambiare conoscenze’ coinvolgendo le emozioni, perché altrimenti è solo uno scambio d’informazioni che non aggiunge nulla a quello che già si dice da decenni.
La fragilità geomorfologica
Mentre l’emergenza nelle Marche perde d’interesse, scivolando nel dimenticatoio della stampa, a Casamicciola Terme, comune dell’isola di Ischia, si abbatte un’alluvione che trascina con sé una parte del monte Epomeo, causando una frana che uccide undici persone, sfollandone 290. Nel territorio, evidenziano i dati del catalogo gestito da Cnr-Irpi, si sono già verificate frane nel 1910, nel 1987 e nel 2009, ma nonostante le cartografie dei Piani di assetto idrogeologico (Pai) riportano valori di pericolosità da frana molto elevati per queste aree, si continua a parlare di abusivismo edilizio, condoni e di mancata cura del territorio. Nonostante le vittime. Per Fabio Luino, ricercatore senior del Cnr-Irpi e responsabile dell’Area tematica Rischio geo-idrologico della Sigea, Società italiana di Geologia ambientale, quanto successo a Ischia non fa altro che evidenziare l’estrema fragilità geomorfologica che caratterizza gran parte della penisola italiana. “Su una realtà orografica complessa e incisa da una fitta rete idrografica, l’aver costruito densamente in aree poco idonee da un punto di vista geo-idrologico ha inevitabilmente aumentato i rischi per la popolazione”, scrive Luino. Gli abitanti dei centri urbani, evidenzia ancora, non sono a conoscenza dei processi geo-idrologici esistenti nel loro territorio, e andrebbero preparati affinché siano consapevoli dei rischi con i quali convivono, per questo sarebbe necessaria un’esercitazione pubblica coordinata dalla Protezione civile, esattamente come avviene per i terremoti. Si potrebbe favorire la diffusione della conoscenza del rischio geo-idrologico sin dalle scuole elementari, più che parlare di delocalizzazione a margine dei disastri, perché questo “sarebbe un intervento risolutivo, ma di difficile applicazione”. Per Gioia la risposta a queste tragedie sta nella prevenzione, e nella mancata attenzione data alle ricerche: “Permettere che più di un milione di persone vivano in zone ad alta pericolosità da frana, o da alluvione, vuol dire considerare il rischio accettabile”. Consentire a delle persone di abitare in zone dove il rischio è riconosciuto, costruire nuove strutture e sanare degli abusivismi edilizi ci mostra che questo nostro modo di utilizzare il territorio ci sta bene, “può andare per dieci, vent’anni, ma prima o poi ti si ritorce contro”.
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