Next stop Washington: un reportage dalla capitale degli Stati Uniti nel giorno della cerimonia di insediamento del nuovo presidente Joe Biden.
Amanda Gorman, la poetessa che ha incantato il mondo all’inaugurazione presidenziale americana
“C’è sempre luce, se siamo abbastanza coraggiosi da vederla”. Chi è Amanda Gorman, la giovane poetessa afroamericana che all’inauguration day ha conquistato tutti.
Lo scorso mese una giovane poetessa e attivista afroamericana di 22 anni riceve una videochiamata. In questi tempi in cui il modo più sicuro per incontrarsi è dietro uno schermo la frase sembrerebbe delle più normali. A chiamarla, però, non è una persona qualunque, ma un membro dello staff del futuro presidente degli Stati Uniti d’America Joe Biden. Dopo che Jill Biden ha visto una sua lettura alla Library of Congress ha pensato che fosse la persona giusta per scrivere e leggere qualcosa durante la cerimonia di insediamento. Ed ecco che quella ragazza, il cui nome è Amanda Gorman, diventa la persona più giovane a prendere parte come poetessa ad un insediamento presidenziale.
Chi è Amanda Gorman
Gorman è nata nel 1998 in una “strana intersezione di Los Angeles”, come l’ha definita lei stessa in un’intervista al New York Times: un concentrato di quartiere afroamericano, eleganza nera, gentrificazione bianca e cultura latina. La sua vita era divisa tra una scuola privata a Malibu e l’appartamento che condivideva con sua madre, Joan Wicks, che di mestiere fa l’insegnante, e i suoi fratelli. È stata un’infanzia in cui si è spesso sentita estranea, ammette lei stessa di essere stata convinta di essere un “alieno”, non di certo una bambina prodigio. Le piaceva trascorrere le giornate su una panchina a scrivere sul suo diario o a costruire il suo personale dizionario, mentre i suoi coetanei giocavano poco più distanti o erano catturati dalla televisione che a casa sua rimaneva costantemente spenta per volere della madre; voleva leggere tutto, scoprire tutto, fare tutto.
Ha sempre preferito la parola scritta, che le veniva più semplice del parlato, soprattutto perché alcuni suoni non era in grado di pronunciarli, creandole grande vergogna. Eppure Gorman trova comunque la sua voce, e lo fa grazie alla lettura della scrittrice Toni Morrison, che le permette di scoprire che anche una ragazza con la carnagione come la sua può essere l’eroina di una storia. Così, scrivendo, si trasforma nella protagonista della sua propria storia: una giovane afroamericana che non si vergogna di nulla, che sa cosa significa essere silenziata dal mondo, unica nel suo genere.
Fa una promessa a se stessa, che non smetterà mai di scrivere, di raccontare le vite delle persone più emarginate. Quando decide di cominciare a pubblicare sono i primi anni del liceo, gli anni in cui partecipa a workshop gratuiti di poesia alla Beyond Baroque e alla nonprofit WriteGirl. Nel 2017 riceve il titolo di National youth poet laureate (giovane poetessa laureata a livello nazionale) e non c’è da sorprendersi che nel frattempo sia arrivata all’università di Harvard dove si laurea con lode in sociologia. Ma sarà probabilmente la giornata del 20 gennaio quella che ricorderà per diverso tempo.
The hill we climb, la poesia di Amanda Gorman per l’inauguration day
Quando conclude quella videochiamata, Gorman non ha vere e proprie linee guida su ciò che dovrà scrivere, non ha nemmeno limitazioni, sa solo che il tema deve essere un’America unita, che è qualcosa in cui lei stessa spera e crede. Così, comincia dalla ricerca: rilegge e rivede i discorsi di grandi leader americani come Martin Luther King e contatta altri poeti che hanno preso parte a inaugurazioni presidenziali. Due settimane fa, si sente esausta, è spaventata, come ogni essere umano al posto suo, ha paura di non essere all’altezza del compito. Prova a scrivere qualche riga ogni giorno, ha capito che è la soluzione migliore e nel frattempo, il 6 gennaio, sembra che una parte dell’America, fedele al presidente uscente, abbia deciso di impazzire tentando di conquistare il Campidoglio in maniera violenta. Gorman rimane sveglia fino a tardi e decide che non vuole tagliare fuori quell’avvenimento dalla sua poesia.
Abbiamo visto una forza che voleva scuotere il nostro Paese anziché tenerlo insieme.
Voleva distruggerlo, rimandando la democrazia.
Ci è quasi riuscita.
Ma se la democrazia può essere periodicamente rimandata,
non può essere distrutta per sempre.
Quando arriva la giornata del 20 gennaio, la sua poesia “The hill we climb” è ovviamente pronta, la sua autrice l’ha letta e riletta per prepararsi a quel momento che la affiancherà ad altri nomi – Robert Frost, Maya Angelou, Elizabeth Alexander, Richard Blanco – che prima di lei hanno poggiato le mani su quel leggio. Per cinque minuti il mondo si ferma, incantato dalle parole di una giovane ragazza che parla di sé, delle sue origini legate alla schiavitù afroamericana, di un’America che ha sofferto, ma che sa come risollevarsi grazie all’unità del suo popolo, come un’araba fenice dalle sue ceneri.
Il web impazzisce quando Gorman finisce di portarci dentro ai suoi desideri, ai suoi sogni per un futuro che può esistere, in cui ci invita a credere anche noi. Milioni di persone condividono le sue parole, chi un verso, chi un altro. Qualcuno si asciuga le lacrime, qualcun altro non smette di sorridere. Altri ancora cercano copie di un suo libro, che uscirà però in America soltanto a settembre (edito da Viking Books) con lo stesso titolo della poesia che l’ha consacrata al mondo.
Il 20 gennaio a Washington il sole scaldava più del solito ed è stato certamente aiutato da Amanda Gorman.
Quando il giorno arriverà, cammineremo fuori dall’ombra, in fiamme e senza paura.
Una nuova alba sboccerà, mentre noi la renderemo libera.
Perché c’è sempre luce,
se siamo abbastanza coraggiosi da vederla.
Se siamo abbastanza coraggiosi da essere noi stessi, luce.
The hill we climb
When day comes, we ask ourselves where can we find light in this never-ending shade?
The loss we carry, a sea we must wade.
We’ve braved the belly of the beast.
We’ve learned that quiet isn’t always peace,
and the norms and notions of what “just” is isn’t always justice.
And yet, the dawn is ours before we knew it.
Somehow we do it.
Somehow we’ve weathered and witnessed a nation that isn’t broken,
but simply unfinished.
We, the successors of a country and a time where a skinny black girl descended from slaves and raised by a single mother can dream of becoming president, only to find herself reciting for one.
And yes, we are far from polished, far from pristine,
but that doesn’t mean we are striving to form a union that is perfect.
We are striving to forge our union with purpose.
To compose a country committed to all cultures, colors, characters, and conditions of man.
And so we lift our gazes not to what stands between us, but what stands before us.
We close the divide because we know, to put our future first, we must first put our differences aside.
We lay down our arms so we can reach out our arms to one another.
We seek harm to none and harmony for all.
Let the globe, if nothing else, say this is true:
That even as we grieved, we grew.
That even as we hurt, we hoped.
That even as we tired, we tried.
That we’ll forever be tied together, victorious.
Not because we will never again know defeat, but because we will never again sow division.
Scripture tells us to envision that everyone shall sit under their own vine and fig tree and no one shall make them afraid.
If we’re to live up to our own time, then victory won’t lie in the blade, but in all the bridges we’ve made.
That is the promise to glade, the hill we climb, if only we dare.
It’s because being American is more than a pride we inherit.
It’s the past we step into and how we repair it.
We’ve seen a force that would shatter our nation rather than share it.
Would destroy our country if it meant delaying democracy.
This effort very nearly succeeded.
But while democracy can be periodically delayed,
it can never be permanently defeated.
In this truth, in this faith, we trust,
for while we have our eyes on the future, history has its eyes on us.
This is the era of just redemption.
We feared it at its inception.
We did not feel prepared to be the heirs of such a terrifying hour,
but within it, we found the power to author a new chapter, to offer hope and laughter to ourselves.
So while once we asked, ‘How could we possibly prevail over catastrophe?’ now we assert, ‘How could catastrophe possibly prevail over us?’
We will not march back to what was, but move to what shall be:
A country that is bruised but whole, benevolent but bold, fierce and free.
We will not be turned around or interrupted by intimidation because we know our inaction and inertia will be the inheritance of the next generation.
Our blunders become their burdens.
But one thing is certain:
If we merge mercy with might, and might with right, then love becomes our legacy and change, our children’s birthright.
So let us leave behind a country better than the one we were left.
With every breath from my bronze-pounded chest, we will raise this wounded world into a wondrous one.
We will rise from the golden hills of the west.
We will rise from the wind-swept north-east where our forefathers first realized revolution.
We will rise from the lake-rimmed cities of the midwestern states.
We will rise from the sun-baked south.
We will rebuild, reconcile, and recover.
In every known nook of our nation, in every corner called our country,
our people, diverse and beautiful, will emerge, battered and beautiful.
When day comes, we step out of the shade, aflame and unafraid.
The new dawn blooms as we free it.
For there is always light,
if only we’re brave enough to see it.
If only we’re brave enough to be it.
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