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La vita com’è, tra i bambini di strada di Nairobi con Amani
A Nairobi ogni anno alcuni bambini abbandonano la vita di strada per cominciare un nuovo percorso. A sostenerli, da 20 anni, c’è l’ong italiana Amani.
Il 15 aprile è stato un giorno particolare per alcuni bambini che per mesi, a volte anni, hanno vissuto per le strade di Nairobi, la capitale del Kenya. Hanno scelto di cambiare vita. Nel giro di 24 ore, 35 ragazzi hanno abbandonato la strada e si sono affidati a educatori locali che sono stati al loro fianco per settimane guadagnandosi, giorno e notte, la loro fiducia, il loro rispetto. Jack, George, Boniface e Collins sono alcuni degli educatori di Koinonia (comunità, in greco), un’organizzazione locale, ispirata dal missionario comboniano padre Renato Kizito Sesana, che cerca di dare una seconda possibilità a decine di bambini che ogni anno finiscono in strada per tanti motivi, non solo legati alla povertà.
Da 20 anni in Africa con i bambini di strada
Questo “rito” in cui un gruppo di bambini accetta di cambiare vita, bruciando gli stracci che rappresentano il passato e di entrare in un centro di prima accoglienza è l’inizio di un percorso che si ripete ogni anno, da 20 anni. Per lasciarsi alle spalle uno stile di vita che porta all’autodistruzione. Uno stile di vita dall’odore acre, come la colla o il carburante degli aerei usati per attutire i morsi della fame; dal suono ipnotico e incessante della periferia e dalle parole ripetitive che gli negano l’opportunità persino di pensare a un’alternativa alla strada; dai colori scuri della sporcizia che si stratifica sui loro vestiti. 20 anni fa, nel 1996 è stata fondata Amani, una ong con sede a Milano che insieme a Koinonia ha aiutato a costruire e continua a sostenere case di accoglienza, centri educativi, scolastici e professionali in Kenya, Zambia e Sudan. Tutti gestiti da professionisti e operatori locali.
La vita di strada ridotta in cenere
“Ogni anno vai in strada e ne trovi di nuovi. A volte sembra di voler raccogliere con le proprie mani l’acqua del mare. Non basta mai quello che facciamo. Servirebbero cambiamenti più radicali”, dice Chiara Avezzano, una volontaria di Amani dal 2003 che ora vive a Nairobi per coordinare un progetto di cooperazione internazionale con il ministero degli Esteri italiano volto al potenziamento dei centri di prima accoglienza e all’apertura del primo centro per avviare il lavoro in strada con le bambine. Ma la gioia che ti pervade quando vedi anche solo uno di questi ragazzi metterci tutto l’impegno possibile per recuperare il tempo perso, per imparare, per coltivare le loro passioni è impagabile, quasi insostenibile. “È bello avere sotto gli occhi la prova concreta del cambiamento in atto – conferma Avezzano – le gocce che tutti assieme abbiamo tirato fuori dal mare, oggi studiano, ridono, si sentono voluti bene, sognano”.
“Perché ogni bambino e giovane africano, costretto a vivere sulla strada, nelle grandi metropoli e nelle zone rurali, ha diritto ad avere un’identità, una casa, cibo, istruzione, salute e l’affetto di un adulto”
“Ho fondato Amani con un missionario e cinque amici”, racconta Gian Marco Elia, presidente dell’ong. “Oggi migliaia di persone ci sostengono e con centinaia siamo in rapporto diretto. Siamo partiti dalla centralità della relazione, che non è mai acquisita e richiede cura e costanza. Tra noi, con gli africani, con chi sostiene la nostra azione”. I centri in Kenya, Zambia e Sudan sono sei e ospitano circa 200 ragazzi. I volontari partiti dall’Italia in questi vent’anni per vivere un’esperienza di conoscenza e condivisione presso le case di accoglienza, in particolare a Nairobi e a Lusaka, sono già oltre 500.
L’Africa del futuro, il futuro è dell’Africa
Il continente africano può vantare una popolazione giovane. Questo, per molti aspetti, può essere considerato un’opportunità perché le nuove generazioni sono spinte dalla voglia di crescere e dalla speranza di farlo rapidamente, in modo sostenibile. Diversamente da un continente vecchio come l’Europa che tenta di slegarsi con fatica da dinamiche consolidate di sviluppo ormai superate e “sporche”. Questa situazione ha consentito il raggiungimento di traguardi e di mettere in discussione alcuni degli stereotipi sull’Africa, finora vista come incapace di far da sé. Soprattutto ha permesso all’Occidente di cominciare a cambiare il modo in cui guarda alle sue vicende, spesso condizionato dall’idea che l’Africa ha bisogno di assistenza, ma soprattutto condizionato dalle aspettative.
“Esiste un’Africa diversa da quella che ci presentano i mass media. Un’Africa che lavora, positiva, ricca di cultura”
“È cambiato il nostro modo di guardare all’Africa, alle sue vicende. Il nostro sguardo. E non è detto che sia cambiato in meglio”, sostiene Pietro Veronese, giornalista che da trent’anni scrive di Africa. Perché, come dice Veronese, “il vero cambiamento richiede un lungo esercizio, è imparare a guardare il mondo con gli occhi degli altri”. Cioè significa sostenere le idee, i progetti e le proposte degli africani, significa rispettare i loro tempi mettendo da parte la frenesia di voler dire la propria, pensando che sia solo quella la via più efficiente e giusta.
Realtà come Amani fanno sperare. Una delle regole dell’ong è che per risolvere i problemi africani, ci vogliono soluzioni africane. In questi vent’anni ha contribuito a coltivare questa prospettiva investendo sulla “sospensione del giudizio”, un’espressione che contiene in sé valori quali la capacità di saper ascoltare prima di parlare, di essere disponibili, di mettere da parte i ritmi a cui si è abituati per lavorare sulla pazienza, sul valore dell’attesa che in Occidente è ormai una caratteristica negativa. Per capire ciò di cui l’Africa ha bisogno, occorre entrare in empatia con le persone. E forse solo a quel punto è possibile raggiungere il senso di appagamento che fa percepire ogni goccia del mare, ogni bambino aiutato, come un gesto necessario. Ecco perché, ribadisce Veronese, in questi 20 anni, che è quasi il tempo di una generazione, gli africani “sono cresciuti molto più di noi. In tutti i sensi”.
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