Dopo un mese di razionamenti, sono stati completati i lavori per la condotta provvisoria che porterà l’acqua dal fiume alla diga di Camastra, ma c’è preoccupazione per i livelli di inquinamento.
Ami Vitale. Le mie foto sono storie di eroi in prima linea per salvare quello che rimane del nostro Pianeta
La fotografa americana Ami Vitale ci parla del rapporto profondo tra il futuro del mondo naturale e il nostro che racchiude in ogni suo scatto. Foto che raccontano storie di speranza, coraggio e resilienza.
Guardiane che scortano e allattano i cuccioli di elefante, custodi vestiti da panda, che dormono, scaldano e proteggono i piccoli di rinoceronte rimasti orfani, e che in Kenya dicono addio all’ultimo rinoceronte bianco settentrionale del Pianeta. Foto che hanno fatto il giro del mondo ma che è bastato vedere una sola volta per averle impresse nella mente.
La mano dietro l’obiettivo è una, quella di Ami Vitale. Fotogiornalista, ambientalista, esploratrice che ha visitato più di cento paesi nel mondo per raccontare, attraverso la fotografia, gli eventi più importanti e i temi più pressanti che segnano i nostri giorni.
La prima volta che ho tenuto in mano una macchina fotografica, ho capito che la fotografia mi dava superpoteri.Ami Vitale
Dopo aver seguito per più di dieci anni i conflitti che incendiavano il mondo, dalla Palestina all’Afghanistan e l’Angola, ha voluto spostare il suo obiettivo sulle sfide ambientali del nostro Pianeta. Perché, con il tempo, ha capito che dietro a ogni conflitto c’era sempre lo stesso elemento: il mondo naturale. Un legame, talvolta drammatico, che ha deciso però di raccontare da un’angolatura che è ormai diventata la sua impronta, e il suo superpotere più grande: fare luce sulle storie di speranza che fioriscono nelle situazioni più aride.
Abbiamo intervistato Ami Vitale, fotografa per il National Geographic e vincitrice di premi internazionali come il World Press Photo, che ci ha spiegato quello che c’è dietro ogni suo scatto e ciò che la spinge a puntare i riflettori sulle storie ancora non raccontate.
Dopo anni in mezzo ai conflitti del mondo, qual è stato il momento in cui ha capito di voler dedicare la sua fotografia al mondo della conservazione?
Nel 2009 mi è stato chiesto di fotografare quattro rinoceronti bianchi settentrionali mentre venivano trasportati in Africa. Ne rimanevano solo 8 esemplari al mondo, tutti rinchiusi in zoo. Era l’ultimo tentativo di salvare l’intera specie. Quando ho incontrato questi animali antichi, gentili, che esistono da milioni di anni, mi sono resa conto che stavo guardando la fine di un’intera specie. Questa cosa mi ha preso il cuore, non potevo credere potesse succedere nel corso della mia vita. Oggi molti mi definiscono una fotografa ambientale. Ma in realtà le mie storie non sono solo sull’ambiente, sono storie che parlano di noi. Quando raccontiamo della salute del Pianeta che si deteriora, sono in realtà storie sull’umanità. Quando guardiamo una specie che si estingue stiamo in realtà assistendo all’umanità che soffre. Non si può pensare che queste specie spariscano senza avere un impatto su tutti e su tutto. Non vedo la natura e le persone come qualcosa di separato, è tutto connesso.
Non si può parlare dell’umanità senza parlare della natura. Ami Vitale
In che modo ha deciso, quindi, di raccontarlo?
In quel momento ho capito che ogni giorno sentiamo storie drammatiche che ci parlano della fine del mondo, facendoci concentrare sul problema, come il bracconaggio, la militarizzazione, i conflitti. Ma sentivo che qualcosa, un pezzo della storia, stava rimanendo fuori. Quello che non veniva raccontato, il pezzo mancante, è cosa stanno facendo le persone per risolvere questi problemi. In questo caso, il pezzo mancante della storia erano le persone, le comunità indigene, che vivono con gli animali selvatici.
E proprio come ho trovato storie di speranza nelle guerre piene di violenza, di persone che nel mezzo di un conflitto riescono a fare la differenza per la propria vita contro ogni previsione, ne ho trovate nella conservazione della natura. Questa è la chiave, loro sono la chiave per salvare quello che rimane del nostro Pianeta. Ci sono storie bellissime di persone che sono i veri eroi in prima linea per proteggere ciò che rimane. E credo che il segreto sia supportare queste comunità, dargli una vera ragione per proteggere gli animali. Perché quando capiscono che gli animali valgono più da vivi che da morti, non serve altra risposta. Per secoli il mondo occidentale si è presentato con arroganza pensando di saperne di più. Ma la realtà è che dobbiamo imparare da queste comunità che hanno sempre vissuto nel rispetto del Pianeta, dobbiamo onorare questa loro conoscenza antica. Così ho capito che il mio ruolo era trovare storie che ci motivino, che ci diano soluzioni ai problemi.
Lei ha vissuto con queste comunità. Abbiamo visto scatti pieni di amore, come quello del guardiano Yusuf. Cosa significa essere loro?
In quello scatto, i cuccioli di rinoceronte avevano perso la madre e Yusuf dormiva letteralmente con loro, prendendosi la malaria e difendendoli da altri predatori. Questi sono i veri eroi, le persone che non stanno sotto i riflettori ma sono là fuori ogni giorno, in condizioni difficilissime. Quando la gente vede le loro foto dice di voler essere come loro. Ma sanno cosa significa realmente? Ho passato diversi anni lavorando con loro: è dura, è sentirsi soli, è fare sacrifici. Queste persone passano più tempo a proteggere gli animali che con i propri bambini. È vero amore. Quando gli chiedi degli animali si commuovono, sono così dedicati.
Un momento significativo è stato quando quest’anno è morto l’ultimo rinoceronte bianco del nord al mondo, Sudan. Lei era lì, ci può raccontare la storia?
Ho seguito, e fotografato, la storia di Sudan per più di dieci anni. Sapevamo che la sua salute era precipitata. Mi hanno chiamata la sera prima, dicendomi che c’era un aereo pronto per me e che era l’unica occasione per salutarlo un’ultima volta. Ho mollato tutto e sono andata. Sono arrivata qualche ora prima che morisse. Era circondato da tutte le persone che lo hanno amato e che se ne sono prese cura. C’era quiete, l’unica cosa che si sentiva era il cinguettio di un uccello e le lacrime di qualcuno che piangeva in silenzio.
Poi è successa la stessa cosa di quando è arrivato la prima volta in Africa, nel 2009. Quando era atterrato e stava entrando nel recinto aveva iniziato a piovere. Me lo ricordo muovere i primi passi nel fango, era così felice. E in quel momento è successa la stessa cosa. Lui era lì, disteso, sofferente, e ad un tratto ha iniziato a piovere. Eravamo tutti lì, è stato un momento bellissimo e straziante allo stesso tempo. Ci ha fatto capire che Sudan doveva essere il nostro campanello d’allarme, perché la sua morte non fosse vana. Sudan è diventato un simbolo internazionale di cosa stiamo facendo al Pianeta. È il simbolo di cosa significa osservare l’estinzione delle specie, proprio davanti ai nostri occhi. Sudan come campanello d’allarme: credo sia l’unica cosa bella di questa storia.
Con le sue foto riesce a mostrare le buone notizie che si nascondono dietro alle cattive notizie. Perché è importante raccontare queste storie?
Le storie piene di speranza ci fanno capire che non è troppo tardi. Il momento per cambiare è ora, siamo a un punto di svolta. È la prima volta nella storia che una generazione, la nostra, riesce a vedere cosa succederà nel futuro. Dipende da noi decidere che tipo di futuro sarà. Un altro esempio di queste storie è il Niger, dove sono stata di recente. Nel paese rimanevano solo 49 esemplari di giraffa. Oggi ce ne sono circa 600. In meno di vent’anni sono riusciti a proteggere una specie intera, farla respirare. Ci sono queste storie nel mondo che ci fanno capire che abbiamo l’occasione per fermare la traiettoria sulla quale ci troviamo.
Così nell’ultimo anno ha viaggiato in molti paesi e lavorato con artisti per far luce su queste storie, essendo la firma dietro al calendario Lavazza 2019, intitolato Good to Earth?
È stato un grande privilegio lavorare per il calendario Lavazza 2019, Good to Earth. Amo quest’idea perché è basata sull’unire l’arte e la creatività per trovare soluzioni ai problemi più urgenti coinvolgendo diversi pubblici. Dobbiamo coinvolgere non soltanto le persone che stanno già lavorando su questi temi. Abbiamo la capacità di avere un grandissimo impatto, e non ci sarà momento migliore per farlo. Quindi è ora di motivare le persone ad agire.
Creando un effetto domino, per citare il progetto di cui fa parte, Ripple effect images?
Esatto. Un altro esempio è un problema di cui si parla spesso, la sovrappopolazione. Secondo me non si può parlare di sovrappopolazione senza parlare di donne e di empowerment. Dandogli opportunità, sia nei paesi in via di sviluppo che in quelli industrializzati, le donne saranno in grado di cambiare il volto di questo Pianeta. Prendiamo il Ruanda come esempio: ha una delle più alte percentuali di donne in Parlamento. Ha dato opportunità alle donne ai livelli più alti, creando un modello. Così, quando viaggiavo nei villaggi incontravo bambine che volevano davvero crearsi una futuro migliore. E quando le donne lo fanno, non hanno aiutano solo se stesse, ma la propria famiglia e la propria comunità. È un effetto a cascata. Un altro esempio è il Reteti elephant sanctuary in Kenya, completamente gestito da donne. I ragazzi increduli viaggiavano fino a dodici ore nel deserto per andare a vedere le donne come guardiane degli elefanti. Stanno andando alla grande, e stanno cambiando l’idea delle comunità.
Qual è il filo conduttore e, quindi, l’obiettivo dei suoi lavori, passati e futuri?
Ormai non mi vedo più come solo una fotografa. Mi vedo come un messaggero, un narratore. Racconto storie. E la fotografia è solo uno strumento, un modo per trovare le storie che ci ispirano, che ci ricordano cosa possiamo raggiungere come individui e come società per il nostro Pianeta. Ci sono tantissime persone straordinarie che fanno l’impossibile per il Pianeta, che stanno creando il mondo in cui vorrebbero vivere. Io ho questa missione, trovare queste persone per fare luce su di loro, fare sentire le loro voci. Anzi, amplificare le loro voci, perché sono già voci forti. E condividere le loro storie, affinché possano incoraggiare il cambiamento.
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