![Desertificazione, dalla Cop16 di Riad passi avanti ma senza un accordo vincolante](https://cdn.lifegate.it/ZG5b65Jt-NL_NDpQdgeph7FGec4=/470x315/smart/https://www.lifegate.it/app/uploads/2024/12/la-cop16-di-riad-si-e-chiusa-senza-un-accordo-tra-gli-stati.jpg, https://cdn.lifegate.it/E8le2vlOec0y7tIOttL8AQS8JX4=/940x630/smart/https://www.lifegate.it/app/uploads/2024/12/la-cop16-di-riad-si-e-chiusa-senza-un-accordo-tra-gli-stati.jpg 2x)
Alla Cop16 si sperava in un protocollo per fronteggiare siccità e desertificazione, ma la decisione è stata rimandata.
Rifiuti, depositi di rottami, basi scientifiche in disuso sono le componenti di una nuova minaccia ambientale che grava sull’Antartide, nonostante gli accordi internazionali.
Almeno duecento siti a rischio sono stati individuati durante le
esplorazioni effettuate dall’United Kingdom Antarctic Hertiage
Trust, l’ente fondato per tentare di risolvere questo grave
problema di inquinamento ambientale.
Molti dei rifiuti contenuti in questi siti, dopo essere stati
individuati, vengono portati alla base americana di Mc Murdo dove
in parte vengono riciclati.
Secondo quanto sostengono i tecnici della base antartica inglese
Port Lockroy, la superficie antartica è disseminata di
rifiuti, stazioni disabitate, cisterne che, in taluni casi
costituiscono vere e proprie bombe ad orologeria pronte a minare la
salute di questo luogo, con conseguenze più gravi di quelle
che molti dichiarano, data la nocività dei rifiuti chimici
contenuti nei siti abbandonati.
Rachel Morgan, amministratrice dell’United Kingdom Antarctic
Heritage Trust, lancia un serissimo allarme.
Vecchie baleniere abbandonate, cisterne che un tempo contenevano
preparati chimici utilizzati per la raffinazione del grasso di
balena ora sostano, arrugginite e piene di pericoli, sulle coste
del continente bianco.
Basi di ricerca abbandonate da governi che non possono più
permettersi di finanziare progetti, come per esempio l’Argentina.
Il Paese sudamericano, in concomitanza con la grave crisi economica
che lo ha colpito, ha preferito abbandonare le stazioni permettendo
che divenissero minacce all’ecosistema antartico.
Il Trattato Antartico ha sempre cercato di sostenere lo
sfruttamento pacifico di questo territorio, limitando le presenze
umane al fine di studiarlo senza danneggiare l’ambiente e gli
esseri viventi che lo popolano.
Sono sempre stati proibiti test nucleari, l’uso del territorio come
discarica e anche la pesca ha avuto moltissime limitazioni.
Ovviamente questo non può essere sufficiente. Occorre un
impegno maggiore per risolvere una situazione che diventa sempre
più pericolosa e rischia di danneggiare definitivamente
l’Antartide.
Questo affascinante continente interamente ricoperto da est ad
ovest da una massa di ghiaccio spessa decine di metri per le sue
condizioni di vita avverse (le temperature invernali possono
raggiungere anche i 60 gradi sotto lo zero) è rimasto fino a
poco tempo fa un ambiente vergine dove la presenza umana è
solo per scopi scientifici: studiare l’ambiente e scoprire il
passato geologico della Terra esaminando il materiale prelevato
dagli strati inferiori della calotta glaciale.
L’ecosistema antartico è molto delicato. Nonostante le
proibitive condizioni di vita essa è rappresentata da
invertebrati che abitano nelle zone deglaciate e costiere del
continente. Sulla costa occidentale della Penisola Antartica, sugli
arcipelaghi e isole limitrofe, si trovano la maggior parte delle
specie vegetali: licheni, muschi e funghi.
Vi sono vertebrati che popolano le zone costiere in estate durante
il periodo della riproduzione: foche e uccelli, tra cui i pinguini.
L’habitat marino a differenza di quello terrestre è assai
popolato e produttivo, l’ecosistema è molto ricco:
fitoplancton, che è la fonte primaria di cibo per il krill,
e numerose specie ittiche trovano tra questi ghiacci il loro ideale
habitat riproduttivo.
E la possibilità di visitare questi posti incontaminati e di
fotografare gli animali, offerta da un numero sempre maggiore di
viaggi organizzati, è un’altra causa impattante su questo
delicato ecosistema.
Elena Evangelisti
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