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Andrea Farinet. Mandiamo in pensione il marketing, il futuro è il socialing
Marketing equivale a manipolazione, persuasione, seduzione? No, non più. Parola di Andrea Farinet, economista, consulente e docente presso Liuc Università Cattaneo e dal 1984 al 2004 all’Università Bocconi. Insieme a un team di lavoro, da diversi anni Farinet sta lavorando su un nuovo modo di intendere il marketing e il ruolo delle aziende nella società
Marketing equivale a manipolazione, persuasione, seduzione? No, non più. Parola di Andrea Farinet, economista, consulente e docente presso Liuc Università Cattaneo e dal 1984 al 2004 all’Università Bocconi. Insieme a un team di lavoro, da diversi anni Farinet sta lavorando su un nuovo modo di intendere il marketing e il ruolo delle aziende nella società digitale. Il suo nome è socialing.
Qual è la definizione di Socialing?
Il concetto di Socialing si basa su due componenti. La prima è quella di marketing responsabile a livello ambientale e sociale: un marketing che propone ai consumatori prodotti e servizi ideati, fabbricati e offerti in maniera etica. La seconda dimensione è quella di marketing fondato sui social network, strumenti che certamente presentano dei rischi ma offrono anche grandi opportunità, ad esempio aprendo nuovi mercati anche ad aziende medie e piccole. In sintesi, un’azienda fa Socialing nella misura in cui ha un approccio etico e trasparente al mercato e al consumatore, basandosi su valori concreti, utilizzando prevalentemente le nuove tecnologie legate ai social network. La finalità principale del Socialing è il benessere reale del cliente a un prezzo adeguato e coerente.
Qual è l’azienda-tipo che intraprende un percorso di consulenza ed affiancamento basato sul Socialing?
Il concetto ed il paradigma completo del Socialing è un lavoro di squadra che ho messo a punto insieme al mio team di collaboratori negli ultimi dieci anni. Siamo partiti da una considerazione: ci eravamo ormai disamorati della parola marketing, che è diventata sempre più sinonimo di seduzione, manipolazione, condizionamento culturale del consumo e degli acquisti. Noi facciamo qualcosa di diverso, qualcosa in cui l’offerta è cruciale. Secondo noi il Socialing è indispensabile in tre settori, che sono quelli con cui interveniamo più frequentemente: alimentare, farmaceutico (salute e benessere), e poi il mondo della cultura (arte e intrattenimento). In questi tre ambiti settoriali la tradizionale legge della domanda e dell’offerta non regge. Non si può chiedere a un paziente come intende essere curato, come è impossibile chiedere ad un fruitore culturale ed artistico quali opere desidera “vivere”. Il Socialing si sta sempre più avvicinando a settori più tradizionali perché genera risultati quasi immediati. Ultimamente anche la moda (tessile e abbigliamento) si sta avvicinando alle esigenze della green economy, della sharing economy e, quindi, al Socialing.
Molto spesso il concetto di marketing viene erroneamente confuso con la comunicazione e la pubblicità. Il vostro approccio invece parte dall’offerta e dalla reputazione aziendale…
In realtà non parte dal prodotto ma dall’utente, inteso come persona; non a caso abbiamo stretto un’alleanza con l’Università di Harvard, che studia la mente e il comportamento, all’interno del centro MBB (Mind, Brain&Behaviour). Partiamo dal fatto che tutti noi siamo consumatori e, quindi, vorremmo andare al supermercato, in farmacia, o in un qualsiasi punto di vendita (reale o digitale) e poterci fidare, trovando un’offerta trasparente con un buon rapporto prezzo/qualità. L’approccio Socialing parte dall’ascolto e dalla profilazione del cliente finale, valorizzando le nuove opportunità tecnologiche del listening e della sentiment analysis, che ci consente di mappare tutto quello che viene detto, fatto e commentato in Rete (web, blog, community, social network eccetera). Dalla fase di ascolto si arriva alle proposte alle aziende.
Il Socialing vuole costituire un ponte tra le logiche del profit e quelle del no profit, abbandonando il preconcetto per cui da un lato ci siano i “buoni” che si preoccupano del sociale e dall’altro gli “affaristi” che pensano solo ai profitti. Ma fino a che punto le imprese profit sono disposte a spingersi in una prospettiva social, fermo restando che il loro obiettivo primario è necessariamente il profitto?
Su questo aspetto abbiamo sviluppato una base empirica, con una serie di ricerche sul benessere degli italiani, l’ultima delle quali (insieme a Eumetra Monterosa) è stata presentata a marzo 2017. Ne è emerso che gli italiani vogliono un rapporto paritario e trasparente con l’offerta, respingono l’idea che per fare profitto si debba nuocere all’ambiente, all’economia circolare e alla salute. Il trend è evidente: se non ti comporti in modo etico, la tua offerta non mi interessa. Per anni i progetti CSR sono stati molto spesso di facciata, ora il contesto è cambiato. Se l’economia tradizionale diventa un po’ più social, tutti noi ne traiamo dei benefici. Andiamo, in forma moderna, verso una nuova accezione di Economia Sociale di mercato di ispirazione tedesca.
Del mondo no profit non mi piace la definizione “in negativo”, che dà implicitamente l’idea per cui quelli più capaci sono nelle aziende e si arricchiscono, mentre quelli meno capaci e meno adatti ripiegano per il no profit. Il terzo settore è sempre social ma deve diventare sempre più profit, imparando anche a gestire meglio le proprie risorse e le proprie finalità solidaristiche e filantropiche.
Questo è il potenziale embrione di una “terza via” di cui si è discusso tanto, spesso a sproposito e con finalità politiche tattiche. Nei Paesi più avanzati vige un capitalismo che, come ha dimostrato Piketty, è iniquo perché per sua natura genera sistematicamente diseguaglianze; dall’altro lato ci sono le socialdemocrazie, che però storicamente non si sono dimostrate efficienti nel lungo periodo. La possibile terza via è quella di riconoscere che siamo tutti consumatori e, quindi, uscire dalla logica, ormai obsoleta, per cui da un lato c’è l’imprenditore (il capitalismo) e dall’altro il lavoratore (il socialismo), e bisogna privilegiare o l’uno o l’altro. Tutelare i cittadini deve essere la priorità del nuovo sistema economico sociale favorito dalle nuove tecnologie.
Vanno in questa direzione le benefit corporation, che da poco sono state introdotte nella legislazione italiana. Quali sono i profili di novità di questa particolare tipologia di impresa, che inserisce un obiettivo sociale nello statuto?
Sicuramente è una prospettiva molto bella e interessante, perché la benefit corporation è una realtà a tutti gli effetti manageriale e imprenditoriale, guidata da un fine sociale. La benefit corporation sostiene alcuni ambiti in cui il privato è inesistente, assente o indifferente e il pubblico è inefficace. La nuova legislazione italiana sull’impresa sociale fa un passo importante: le nostre imprese sociali saranno aggregatori di energie, forze e competenze molto utili se non perderanno mai di vista la gestione oculata della loro componente prettamente economica e aziendale. In caso contrario, diventeranno enti a perdere.
L’Italia, quindi, è pronta a recepire le benefit corporation e questa possibile terza via?
C’è da fare tantissimo dal punto di vista culturale. Ad esempio, rispetto ad altri Paesi ci manca un ente unitario di tutela dei consumatori: c’è tanta volontà, che si scontra però con la frammentazione e la scarsa organizzazione. Dobbiamo identificare i protagonisti dell’impresa sociale, i loro finanziatori, i loro obiettivi aggreganti. In termini di competenze c’è molto da lavorare, soprattutto sul versante delle competenze digitali su cui il sistema Italia è ancora molto indietro.
Quindi servono percorsi formativi che coniughino il digitale e la responsabilità sociale?
Il filone più promettente è quello del legame sempre più forte tra psicologia, economia e tecnologia. Posso conoscere perfettamente le funzionalità di una app, di un blog o di un social network, ma magari non sapere nulla della psicologia cognitiva di chi lo usa. A quel punto può essere molto interessante coniugare il customer thinking con il digitale, all’interno di un’organizzazione che stabilisca in modo chiaro il suo ruolo sociale.
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