Leonardo da Vinci fu genio indiscusso del Cinquecento. Cosa sappiamo delle sue opere? Le curiosità sul suo conto sono tutte vere? Cosa possiamo ancora imparare da lui?
Andreas Kipar, architetto e paesaggista, sul nuovo volto di Milano e sul futuro che l’attende
Andreas Kipar è uno dei maggiori esperti internazionali di architettura del paesaggio.
È cambiato radicalmente il modo di concepire le città, sviluppando paesaggi urbani più vivibili, dove il verde ha un ruolo determinante per costruire storie di paesaggio capaci di rigenerare le comunità urbane e i territori attraverso un approccio di sostenibilità basato sulla riconnessione con la natura.
Del profondo cambiamento di Milano negli anni recenti, dei successi raggiunti e delle sfide delle città per un futuro prossimo sostenibile abbiamo parlato con Andreas Kipar, tedesco di origine, fondatore insieme a Giovanni Sala, agronomo, dello studio Land, Landscape, nature, architecture, development (paesaggio, natura, architettura, sviluppo) con sedi a Milano, Lugano, Düsseldorf prima dell’emergenza sanitaria Covid-19 e del lockdown cominciato, almeno in Italia, a marzo 2020.
Al cambio improvviso dello scenario globale in tempi di pandemia e alle nuove sfide che stiamo vivendo, Land e il suo Research Lab rispondono con una strategia di progettazione adattativa, basata su alcuni princìpi per lo sviluppo più vivibile della città. Kipar ha vinto lo scorso dicembre il premio Città di Pisa per la qualità urbana 2019, assegnato nell’ambito della Biennale di Pisa Tempodacqua curata da Alfonso Femia. “Il fatto che vengano premiate la qualità urbana e la cura del territorio – ha dichiarato Kipar – è segno di un cambiamento di paradigma nel modo di concepire e vivere la città, di una nuova visione, percepita a più livelli, del rapporto tra uomo e natura, che ci permette di coltivare la città del futuro. Stiamo vivendo un’era di trasformazione, che passa dalla Città Ideale al concetto di paesaggio ideale”.
Quali sono le sfide sulla città e sul paesaggio urbano che la pandemia ha messo in luce con più evidenza?
Questa situazione ci mette di fronte a un’opportunità radicale: ideare un nuovo modello di sviluppo basato sul benessere sociale e sulla qualità ambientale veicolando gli slanci dell’ultimo decennio verso la resilienza climatica e la rigenerazione urbana. Lo spazio aperto diventa teatro della sfera pubblica, ma anche privata; la digitalizzazione aveva già portato a una estensione della sfera pubblica attraverso la dimensione virtuale e interconnessa dello spazio pubblico, ma anche a una individualizzazione della vita civica. La situazione attuale ci spinge a recuperare la socialità dell’esterno e desiderare una presenza più capillare del verde urbano come rifugio sicuro. Le piazze, le strade, i parchi diventeranno sempre di più estensione delle ristrette residenze private e degli spazi omologati del lavoro, nonché luoghi privilegiati per lo svolgimento, per quanto ridimensionato, di una vita culturale e sociale pubblica.
Stiamo sviluppando una strategia di progettazione adattativa alle nuove sfide che stiamo vivendo, basata su alcuni princìpi per lo sviluppo di paesaggi urbani più vivibili: luoghi pensati per le persone e progetti rigenerativi, infrastrutture verdi per resilienza climatica e inclusione sociale, mobilità lenta. L’esigenza di continuare a vivere la città garantendo la salute dei cittadini, ma anche il modello di vivibilità a cui faticosamente ci stavamo avvicinando nell’era della digitalizzazione, ci spinge a cercare soluzioni immediate per questa transizione epocale.
Il Land Research Lab interpreta questi bisogni e aspettative traducendoli in approcci innovativi ispirati agli obiettivi dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile. Lo European Green Deal, il programma di politiche e finanziamenti per la sostenibilità che la Commissione von der Leyen (la presidente Ursula von der Leyen è alla guida della Commissione europea insieme al collegio dei commissari per il quinquennio 2019-2024, ndr) intende attuare nella prospettiva di una Europa ‘climaticamente neutra’ entro il 2050, fornisce un piano e degli strumenti concreti per sfruttare le opportunità di questa transizione. Il nostro team internazionale si mette al servizio dei Comuni italiani per creare insieme comunità più resilienti, attente ed efficienti nella gestione del cambiamento climatico, delle sfide socio-economiche e nel raggiungimento di un benessere equamente distribuito.
Il cambiamento di Milano in questi ultimi anni è visibile e straordinario. Come è avvenuto?
Il cambiamento avviene a partire dai cittadini. I milanesi degli anni Ottanta sapevano che le loro fabbriche, Alfa Romeo, Maserati, Fiat, Pirelli, erano dei grandi asset del mondo industriale ed erano consci di questo valore. Convivevano con un certo orgoglio con questi valori della loro città industrializzata, l’unica in Italia oltre a Torino.
Dagli anni Ottanta in poi questa certezza che ha fatto la ricchezza di Milano per un intero secolo è venuta a mancare perché le fabbriche hanno chiuso una dopo l’altra. Milano da 1,7 milioni di abitanti è tornata ad essere una città da 1,3 milioni. Chiuse le fabbriche – la Pirelli con il progetto Bicocca è la prima ad essere riconvertita – inizia un grande lavoro che io chiamo il lavoro sul “corpo”. La città è un organismo e ha cominciato a lavorare sul corpo, sulla sostanza, cosa piuttosto difficile. Noi lavoriamo nell’organismo urbano su tre elementi: corpo, anima e vestito. Oggi parliamo finalmente di questi tre elementi insieme. Poiché i milanesi sono diligenti, fattivi e corrono, questo lavoro sul corpo è stato coronato da esperienze di successo. Con l’architetto Vittorio Gregotti abbiamo sviluppato il progetto dell’area Bicocca, con Gino Valle quello della zona Portello.
Questi episodi di rigenerazione urbana hanno gradualmente preparato il terreno per la ‘disruption’ (rottura, cambiamento repentino, ndr) di Porta Nuova, il cambiamento radicale attuato da Hines sull’area di Garibaldi e delle Varesine. Noi che abbiamo vissuto questa stagione della trasformazione del corpo non come spettatori ma come partecipanti attivi, abbiamo percepito già al Portello con Ennio Brion in qualità promotore e Gino Valle come grande regista architettonico che la vicenda urbanistica milanese aveva preso una direzione diversa. Nessun’altra città in Europa ha questa diversità. In tutto questo scenario lavorando molto sul corpo della città è poi arrivato, finalmente, un evento mondiale, Expo nel 2015.
Expo è stato dunque l’evento determinante per percepire che la città era cambiata?
Expo ha fatto capire al mondo, ma soprattutto ai milanesi, che il corpo della città era cambiato. L’Expo è stato la ciliegina sulla torta, ma la torta c’era già!
Milano era pronta, aveva i valori, un nuovo asset, aveva cominciato a respirare con una nuova anima, ma nessuno lo sapeva ancora, tant’è che ancora all’inaugurazione di Expo i milanesi erano scettici. Arrivano gli stranieri e trovano tutto bello. Nessuno sapeva che cosa fosse così bello, Expo o Milano? Intanto il messaggio che si diffondeva era: ‘Bello!’. Gli stranieri erano sorpresi da Expo, ma soprattutto dalla scoperta della città di Milano. Prima non c’era ragione di venire a Milano, se non per business. A un certo punto è iniziato un flusso inarrestabile di cittadini internazionali che diffondono all’estero questo messaggio della bellezza straordinaria e inaspettata della città. Questo fa sì che Expo diventi un enorme successo dal punto di vista dei visitatori. Ma il vero successo di Expo è il cosiddetto ‘effetto dello specchio’. Il milanese è storicamente complessato sul tema bellezza, rispetto alla grande bellezza codificata romana, fiorentina o veneziana, tant’è che fuggiva dalla città appena possibile. A forza di sentir dire che tutto era bello a un certo punto i milanesi hanno cominciato a dire ‘okay, allora siamo davvero belli’ e hanno sviluppato una nuova anima! Non più l’anima dell’operaio che doveva correre veloce perché c’era l’industrializzazione, ma l’anima della città mitteleuropea, la ‘Londra del Sud’, che poteva offrire charme, bellezza, creatività mediterranea e nello stesso tempo operatività, concretezza ed efficienza mitteleuropea. Oggi Milano è questo mix.
Quindi, per rimanere nella metafora della città come organismo, dopo il lavoro sul corpo e sull’anima Milano ha avuto bisogno di un nuovo vestito?
Alla fine, come quando ci troviamo bene con il nostro corpo e la nostra anima non possiamo più portare i vecchi vestiti e ne cerchiamo dei nuovi. Il vestito è consequenziale al cambiamento. Per tanto tempo nella modernità noi abbiamo iniziato con il vestito, pensando che il corpo si dovesse adeguare. La post-modernità, ne sono convinto, parte dal corpo e dall’anima per poi crearsi un vestito a misura. Oggi torna la vocazione del vestito su misura, un vero e proprio prêt-à-porter milanese… Milano adesso con il nuovo Pgt (Piano di governo del territorio, ndr), con la nuova missione della sostenibilità 2030 sta per cucirsi un vestito multicolore, fatto di tante piccole tessere di paesaggio urbano, non codificato, ma vocato verso una nuova scala umana.
Prima la città era predominata da lavoro, smog, automobili, grande corsa e desiderio di evadere per il fine settimana; oggi i musei, che nei weekend sono pieni, i concerti, i ristoranti, i festival all’aperto. Viviamo la città in un’altra ottica, non abbiamo più bisogno di fuggire. La vita è bella qui e Milano interpreta questa nuova vita che sa di essere supportata da un corpo sano e da un’anima ritrovata e oggi si sta cucendo con una certa gioia un vestito nuovo. Il verde è sempre vestito, non è mai corpo. Il suolo è il corpo, l’acqua l’anima e il verde il vestito che cambia con il mutare della società.
Il vestito oggi è verde dunque…
Nell’urbanizzazione milanese è sempre stato utilizzato il platano e l’ippocastano, alberi codificati. Oggi il platano sta male e l’ippocastano pure. A Berlino usavano i tigli, il sud Europa ha invece molto copiato dalla Francia e usava i platani. Ogni urbanizzazione era accompagnata da boulevard e piazze. Oggi questo vestito deve rispondere alle esigenze del mondo nuovo, perciò alla ‘sharing society’, allo spazio pubblico perché le case diventano troppo piccole, al climate change. Oggi dobbiamo dare una risposta al grande caldo di Milano, ma anche alle bombe d’acqua. Perciò vedo questa fase della città come un momento di autocoscienza e attuazione; l’attitudine porta i milanesi ad essere veloci anticipando i tempi nel panorama nazionale. È significativo l’esempio del sindaco che per tre mesi ha vietato l’uso dei monopattini elettrici in assenza di un regolamento specifico, ma in breve tempo lo ha riconsentito dopo aver dettato le regole per la loro circolazione. Oppure il caso del car e bike sharing meneghini, tra i primi in Europa per numero di utenti, che in poco tempo hanno contribuito a rimpiazzare il primato dell’auto. In Europa emerge con veemenza un nuovo tema: la diffusa necessità di ridefinire il rapporto con la natura. È quasi un tema di rigore spirituale: non è più un tema di ornamento, ma l’elemento dell’albero urbano diventa icona della biodiversità. Oggi la natura si manifesta sul tetto, sulla facciata, nel Bosco verticale, nei Raggi verdi, nei piccoli e grandi parchi ma anche nei corsi d’acqua che man mano vengono rievocati a partire dai Navigli. In questo Milano è sempre interprete del mondo nuovo sulle tracce del suo palinsesto storico, e lo fa in modo veloce, coinvolgente e partecipativo.
Verde e sostenibilità: qual è la sua visione su come può cambiare profondamente la città con questi progetti?
In questo programma di cambiamento c’è il grande progetto Forestami che mira ad avere un obiettivo ambizioso: rendere visibile la sostenibilità e misurabile in diretta e autonomamente. Questo è un bisogno sentito e diffuso. Non a caso anche le app che abbiamo sui nostri orologi e smartphones non contano solo i passi che facciamo, ma ci comunicano anche i dati sul clima, le polveri sottili, il vento, gli elementi legati alla natura. So che la città del futuro sarà verde e qui Milano fa bene a dire, ad esempio, che nel progetto degli Scali ferroviari più del 50 per cento sarà verde. Ma un verde di natura produttiva: orti, agricoltura urbana, spazi ricreativi, verde tecnologico e bio-climatico, sistemi di drenaggio naturale delle piogge. Mi sogno una città autosufficiente, quasi come a Berlino dove le comunità di giovani comprano fattorie nella campagna dimenticate, riutilizzano chiese sconsacrate. Ci stiamo preparando a tornare al modello delle abbazie benedettine! L’intellighenzia (gruppo intellettuale della società ideologicamente impegnato, ndr) si sta già ritirando in luoghi con persone che condividono le stesse idee.
Qui abbiamo l’esempio di Chiaravalle, dove c’è l’abbazia, un sito che negli ultimi dieci anni è cambiato, dove comincia a funzionare la scuola, ci sono le prime ristrutturazioni… Milano anticipa tutti questi fenomeni e avrebbe oggi semmai bisogno di qualche contrappeso, che chiamiamo social housing, affitti calmierati. Anche i portali di affitti a breve termine andrebbero regolamentati per non fare l’errore di Barcellona che ha lasciato completamente libero il mercato e oggi rimpiange di aver dato una piccola ricchezza a una parte di barcellonesi che avevano sistemato le case, per poi rendersi conto che a lungo andare il ‘popolo dei trolley’ non fa vivere una città. Dobbiamo avere cura che Milano non diventi la ‘città dei trolley’, ma la città delle persone che vogliono abitare e visitare una città vitale, la città del futuro. La forza di Milano è che la miscellanea avviene qui – proprio a Mediolanum – dove oggi confluiscono persone dalle regioni del Sud ma anche nordeuropei, asiatici e africani. È questa la forza, dove nord e sud si incontrano e creano un nuovo dna della città.
In questa direzione è emblematico il progetto Mind, il distretto della scienza, del sapere e dell’innovazione nell’area di Expo, perché porta linfa vitale a Milano: i 2.300 ricercatori che entrano al Mind arrivano a Milano con le famiglie, perché la città offre tante opportunità di eccellenza: buone scuole, università competitive, conservatori, teatri, cultura, enogastronomia. Questo sale dell’intellighenzia fa sì che Milano abbia da ben sperare e ben temere, perché è una metropoli piccola, solo 180 chilometri quadrati. Ci si chiede come tutto questo possa avvenire in una densità urbana senza precedenti. Monaco di Baviera, la città più densamente popolata, ne ha 4.400 persone a chilometro quadrato, Milano si avvicina agli 8.000. Parigi ne ha 12.000.
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Quali sono le sfide da affrontare per il futuro?
La sfida sarà nello spazio pubblico. Nel futuro la città sarà molto popolata nello spazio pubblico. Che a questo punto deve diventare una specie di contenitore di servizi a 360 gradi. Welfare, sicurezza, lavoro, cibo, movimento, tutto converge verso lo spazio pubblico, mentre prima ognuno aveva la sua corsia preferenziale. E questo Milano lo sa fare. La vera sfida non è il numero di alberi che si vogliono piantare, ma la qualità che questi alberi possono creare nell’ambito dello spazio pubblico. Più facciamo parchi e più si riempiono. Una volta il parco Nord non era attrezzato, ma quando sono state messe 50 panchine la protesta dei cittadini è stata che erano troppo poche. La società risponde potenzialmente aumentando la domanda quando c’è l’offerta.
Piazza Gae Aulenti con la lunga passeggiata senza auto è straordinaria. La sfida è che alla verticalità dobbiamo dare l’orizzontalità. L’edificio verticale non avrà più solo una verticalità, ma sarà come a Singapore interrotto da ampi piani di orizzontalità dove si potrà entrare a più livelli. L’edificio stesso si libera dalla sua staticità e si apre alla dinamicità delle relazioni con la geografia, con il cielo, con le persone. Ad esempio il collegamento tra piazza Bonnet e corso Como è ispirato dal concept del progetto dei Raggi verdi’: da corso Como che è troppo pieno crea un bypass per andare alla Fondazione Feltrinelli. Per far questo il masterplan ha dato indicazioni di creare la base della piazza con permeabilità pubblica, con ristoranti, caffè, working space condiviso. Ecco, la città del futuro trova nella densità totale una nuova vitalità come se mettessimo un bypass che ha il compito di riattivare le connessioni del tessuto urbano. Una volta messo, come abbiamo visto a Essen, diventata capitale europea del verde nel 2017, grazie al progetto dei Raggi verdi importato da Milano, questo attiva un processo circolare e alla fine tutto funziona.
I tempi di attuazione dei progetti sembrano tuttavia sempre molto lunghi. È dovuto alla nostra lentezza burocratica?
Milano è riuscita grazie alla capacità imprenditoriale dei suoi abitanti a superare una certa rigidità amministrativa, e lo dico non in senso negativo, ma ordinario. Ricordiamoci sempre bene che tutte le amministrazioni funzionano con assessorati – sport, ambiente, mobilità, edilizia –, ognuno con un suo vertice. In tutto il mondo è così perché 150 anni di industrializzazione ci hanno portato a definire la più efficace compartimentazione del servizio pubblico. Dovevamo diventare efficaci e abbiamo diviso i vari temi. Nella società milanese degli anni settanta nasceva il progetto Boscoincittà come prima azione di volontariato pubblico in cui comitati fattivi piantavano alberi. Già loro anticipavano delle ‘nuvole’, o “cloud” come li chiameremmo in gergo digitale, un modello informale e non lineare. Oggi viviamo della non linearità e della non formalità. Contrariamente al passato, oggi in tutta Europa prima di fare un piano regolatore codificato si chiede un masterplan informale, una visione, qualcosa che non ha formalità e in quanto tale è più libero. Questi masterplan si può, si deve, inserirli nella formalità della prassi pianificatoria.
Come è nato il suo progetto dei Raggi verdi?
La ‘nuvola’ dell’avvocato Giuseppe Torrani di Italia Nostra ha fatto storia. Nel 2003 chiese agli architetti che cosa si poteva immaginare per Milano che aveva iniziato la sua trasformazione. Venivano i vari architetti, ognuno portava un rotolo di progetti e proposte, chi aveva una biblioteca, chi un ponte, chi voleva fare qualcosa d’altro sui bastioni. Torrani li ascoltava, avevano ognuno quindici minuti per esporre l’idea. A un certo punto mi chiese ‘Ma tu tedeschino cosa pensi?’, mi chiamava così perché mi conosceva fin da giovane. Risposi: ‘Penso che c’è già tutto, ma che bisogna metterlo insieme in un’altra maniera e bisogna creare una percezione diversa. Valorizzare quello che abbiamo e connetterlo, perché non siamo connessi. Il giorno dopo abbiamo cominciato a ragionare e da lì venne fuori l’idea dei Raggi verdi. Avevo fatto il disegno con Milano al centro e otto raggi che dal centro portavano all’esterno. Questa fu un’idea informale. Nel 2010 abbiamo portato quest’idea già consolidata a Berlino e Monaco con i nostri progetti.
Durante il governo di Milano del sindaco Letizia Moratti è stato fatto il primo passaggio dall’informalità alla formalità con la richiesta di uno studio di fattibilità da parte dell’amministrazione. Una settimana dopo, passeggiando in piazza della Scala con le mie figlie, ho visto i manifesti di Expo con la scritta “Strategia i Raggi verdi”. Questa è la velocità intuitiva con la quale un’informalità è stata proiettata nella formalità per superare i concorrenti in gara con Milano come la città di Ismir. Queste ‘nuvole’ di informalità avevano coinvolto quattro assessori: mobilità, ambiente, cultura e urbanistica. Oggi se guardiamo i piani di Glasgow, Toronto, New York, Montreal tutti sanno che i comparti sono difficili da riformare (ma tra vent’anni non ci saranno più questi comparti). Quindi si tratta iniettare delle nuvole di contaminare che colgono l’occasione di far lavorare assessorati diversi. La lentezza è quasi virtuosa. Ci vuole il tempo, l’unica cosa che può accelerare è una visione forte alla quale tutti vogliono partecipare.
Questa nuova visione di pensare la città presuppone una diversa relazione tra paesaggio e architettura rispetto al passato?
Giò Ponti scrisse su un numero della rivista Domus che non riesco a ritrovare che ‘la paesaggistica offre il pass-partout al fine che noi architetti possiamo inserire i nostri diamanti, le nostre architetture’. Perché oggi il pass-partout diventa quasi più prestigioso di quanto mettiamo dentro.
Nel momento in cui nello spazio pubblico converge tutto, dalle pressioni sociali alle espressioni di convivialità e inclusione, è chiaro che lì si deve investire molto di più di prima, si deve quasi raddoppiare la spesa annua per lo spazio pubblico e questo ancora non avviene. Una delle poche città che finora l’ha fatto in modo intelligente è Copenaghen: in seguito a una serie di eventi metereologici particolarmente violenti tra il 2010 e il 2011 che sono costati oltre 800 milioni di euro in interventi di ripristino e riparazione, la città ha investito in prevenzione e adattamento attraverso una strategia, “Cloudburst” appunto, che prevede di investire 1,3 miliardi di euro in 30 anni in opere di mitigazione e drenaggio sostenibile.
L’analisi costi-benefici che ha accompagnato il piano ha dimostrato non solo che senza azioni in questa direzione i costi si triplicherebbero nei prossimi 100 anni, ma anche che l’utilizzo di soluzioni nature-based farà risparmiare circa 44 milioni di euro rispetto alla realizzazione di una mega infrastruttura sotterranea. Inoltre le componenti puramente idrauliche del piano saranno implementate attraverso un innalzamento delle tariffe del servizio idrico, creando senso di responsabilità partecipata tra i cittadini.
A Milano manca questa onesta dichiarazione: abbiamo raddoppiato il verde ma oggi devo constatare che non sempre riusciamo a mantenerlo. La Biblioteca degli alberi ha trovato con la fondazione Catella un modello. Il nostro progetto del parco al Portello con Ennio Brion e Charles Jencks aveva un costo di 7 euro al metro quadro che il promotore spendeva per la gestione annua. Adesso, con il passaggio ala gestione pubblica, per ovvie ragioni di budget deve vivere con 2,6 euro; la prospettiva è piena di incognite per chiunque sappia come il verde abbia bisogno di cura continua per mantenere le sue caratteristiche estetiche ma soprattutto le sue funzioni ricreative ed ecosistemiche. Ogni città europea ha un piano di settore in questo ambito che si chiama ‘piano del verde’. Milano non ce l’ha, e questa rimane ancora un’importante missione da assolvere per garantire un futuro sostenibile alla città. Milano ha il progetto dei Raggi verdi, ha Forestami, ma non ha un piano del verde con un programma strategico-operativo e un bilancio proprio; questo è un fattore che può pregiudicare la riuscita delle illuminate ambizioni dell’amministrazione.
È necessario creare sinergie tra le iniziative attivate o programmate, come Forestami, Fiume verde (il progetto di riforestazione urbana di Stefano Boeri, ndr), Raggi verdi e i nuovi parchi delle aree di sviluppo; non si può contare solo sugli sponsor e sulle PPPs ( iniziative di partenariato pubblico-privato congiunto, ndr), che Milano ha saputo tuttavia affermare come pratiche di successo. Investire in un futuro di sostenibilità e resilienza implica investire nella pianificazione, gestione e manutenzione del verde urbano: Copenaghen ha investito più di un miliardo per affrontare l’emergenza climatica, Milano con le sue potenzialità e il suo ruolo di primo piano nei network internazionali di città dovrebbe fare un primo passo in questa direzione.
Quali sono i prossimi sviluppi prevedibili per lo sviluppo futuro della città?
Il grande disegno dell’aerea metropolitana non è ancora chiaro. Cominciamo ad avere dei piccoli segnali che il carico delle infrastrutture della città si avvicina a un punto critico; nuove linee metropolitane vengono inaugurate, e già sembrano non bastino, perciò si continua a prospettare un’espansione della città pubblica in senso metropolitano. Credo sia necessario pensare a tanti nuovi bypass (elementi di collegamento, ndr) nella città che consentano a migliaia di cittadini nella loro quotidianità di prendere vie diverse. Arrivare da un capo all’altro della città in bicicletta attraversando un parco, ad esempio, è ben diverso che non dover prendere giornalmente una metropolitana affollata.
I bypass consentono un benessere inestimabile dal punto di vista salute. La valenza di un vestito verde efficiente e sano non è ancora del tutto esplicitata, non viene ancora messa sulla bilancia per capire quanto vale in termini di costi risparmiati per cure mediche e riduzione dei sintomi da stress. In pochi anni si arriverà a misurare la valenza economica delle ‘green infrastructures’ (infrastrutture verdi, ndr), uno strumento formidabile messoci a disposizione dalla Commissione Europea e ora inserito tra le priorità dei prossimi decenni dal nuovo Green Deal, il promettente programma comunitario che prospetta consistenti finanziamenti nel campo della sostenibilità ambientale e della resilienza climatica.
Questo diventa un elemento che ci dà molta fiducia per il futuro. Dopo aver sistemato con la macro-chirurgia la città, nella decade 2020-30 cominciamo a limare, ad agire con interventi di agopuntura curativa. E le infrastrutture verdi costituiscono la piattaforma di cooperazione su cui discutere e definire il futuro della nostra piccola grande metropoli.
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