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Animol
Cinque storie, all’apparenza molto diverse tra loro, descritte attraverso cinque testimonianze di persone che hanno rapporti con gli animali.
Di certo questo lavoro apre degli interrogativi, e probabilmente
non li chiude. Lascia piuttosto che siano le immagini a parlare, e
attraverso di esse lascia che siamo noi a volerci fare la nostra
personale idea.
Cinque storie, all’apparenza molto diverse tra loro, descritte
attraverso cinque testimonianze di persone che, in qualche maniera,
hanno a che fare con gli animali: una creatrice di “moda per
animali”, un etologo, un macellaio, un’allevatrice di cani e,
infine, un disinfestatore. Tutti personaggi che, di certo, fanno
dell’animale una loro ragione di vita, e una forma di
sostentamento.
All’apparenza la loro visione del problema è molto
diversa, e si tratta di cinque posizioni quasi antitetiche. Ma,
come lo stesso Berrini ci tiene a sottolineare, si tratta di storie
inscindibili. Lui stesso, infatti, vede il suo film non come un
film a episodi, ma come composto da parti funzionali ad un tutto
più organico. In effetti, se osserviamo attentamente il
lavoro, le sue parti ci appaiono come organi di uno stesso corpo,
funzionali al tutto, o anche come i componenti di un motore, che
abbisogna di tutti per funzionare correttamente.
L’organicità del lavoro appare anche nella disposizione
delle storie: apre, infatti, una creatrice di moda per animali.
Forse simbolo di frivolezza, di trattare l’animale come un oggetto.
Segue l’etologo, per il quale l’animale è oggetto di
osservazione, analisi di come è fatto. Poi il macellaio, che
dell’animale vede una componente di profitto, l’allevatrice, con
una panoramica sull’amore per gli animali, ed infine il
disinfestatore, dove morte e vita vengono a coincidere.
Il problema dell’amore per gli animali è di certo
centrale. In qualche modo, tutti questi personaggi cercano di amare
l’animale. Anche coloro che più ci appaiono come svincolati
da questo sentimento, quali il macellaio, fanno sentire come
l’animale sia, in fondo, per lui, un qualcosa a cui ci si
affeziona, e la cui perdita necessaria sembra dare tristezza. Lo
stesso disinfestatore, la cui storia è annunciata da un
esplicativo “senza morte non c’è vita”, vede la morte
dell’animale come un passo necessario per giungere alla vita, per
generare nuova vita. Estendendo poi il discorso alla morte in
generale, passo necessario nel ciclo vitale, e base e fondamento
per un nuovo inizio.
Non a caso la sua storia segue direttamente quella
dell’allevatrice, dove il discorso va a toccare direttamente il
tema Amore, attraverso la visione di un cimitero per animali, in
cui le iscrizioni fanno capire come, per alcuni, l’animale possa
essere veramente una “persona” di famiglia.
Nel film colpisce anche il tono che si dà alla
descrizione: a tratti molto diretto (come nella scena del macello),
ma anche piuttosto grottesco e ironico (magari sarcastico). Di
certo suscita ilarità la sarta per animali, e anche la scena
del cimitero per animali ha suscitato, in alcuni eccessi, qualche
risata, anche per il modo con cui è stata resa, diretto, ma
calcando sul tono ironico.
Questo modo di descrivere ci lascia con una domanda? L’amore che
si vede per l’animale è vero amore o è solo un modo
di considerare l’animale come un oggetto da coccolare (forse al
livello di un orsetto di pelouche)? L’Amore che il Regista ci
mostra è forse un altro modo per non comprendere davvero, o
voler solo comprendere la superficie, senza andare al di là?
Chi possiede un animale, ha davvero le idee chiare su quelle che
siano le sue esigenze?
La risposta rimane a chi guarda. Il film si limita a mostrare,
senza giudicare, a volerci far vedere, capire. Attraverso un tono
diretto, e sempre molto incisivo. E questo, di certo, non è
poco.
Sergio Ragaini
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