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Gli anziani transgender, i più fragili e nascosti
Cosa significa essere anziani transgender? La società è pronta a stare loro accanto? Abbiamo incontrato alcune attiviste donne transgender che ce lo hanno raccontato.
“Non pensavo di arrivare a 50 anni. Quando ero ragazza, essere una donna transgender significava vivere la strada. La prostituzione era l’unico modo per sopravvivere. Nessuna alternativa. Violenza, droga, alcol, aids, terapie ormonali fai da te: i pericoli erano così tanti da cancellare una prospettiva di vita a lungo termine”. A parlare è Antonia Monopoli, responsabile dello dello sportello Trans Ala Milano onlus, che ogni anno segue circa 400 persone che scelgono di intraprendere il percorso di transizione.
In diversi casi, la possibilità che le persone transgender arrivassero alla terza età probabilmente non era contemplata. Esistenze rese fragili da gravi fattori di rischio, che fino a qualche anno fa erano ancora più pesanti di quanto lo siano oggi. Di fatto, oggi esiste una fascia di popolazione transessuale che si sta avvicinando alla terza età o che la sta attraversando, spesso totalmente in ombra, così come ha vissuto l’intera vita.
Invecchiare dopo una vita vissuta al buio
Alcuni paesi, come ad esempio l’Australia, la Spagna e gli Stati Uniti, hanno già iniziato a prendere in considerazione questo tema, attraverso progetti e ricerche accademiche, anche interdisciplinari, per studiare e delineare meglio le condizioni socio sanitarie delle persone adulte transgender, con l’obiettivo di mettere in luce bisogni e necessità specifiche.
In Italia si stanno muovendo i primissimi passi ed è stato da poco dato il via ad uno studio dell’Istituto superiore di sanità, condotto insieme a sette dei principali centri di ricerca per la gestione clinica delle persone transgender.
La questione è stata quindi presa in considerazione da pochissimo e non si conoscono ancora i risultati della ricerca. Ma quali sono le necessità, i problemi, i fattori di rischio legati alla loro salute? Come stanno affrontando la vecchiaia? Abbiamo incontrato alcune attiviste donne transgender che hanno superato la soglia di 50 anni per capire da un lato, com’è cambiata la vita delle persone con la disforia di genere e, dall’altro cosa si aspettano, che preoccupazioni hanno per il loro futuro.
Lo stigma verso le persone transgender è cambiato poco e l’affossamento del DDL Zan ne è la dimostrazione innegabile
Quante sono le persone transgender in Italia
Un primo tema da affrontare riguarda la questione dei numeri e il nostro paese è indietro anche nelle statistiche. Sempre l’Istituto superiore di sanità ha avviato nel 2020 il primo studio per sapere quante sono le persone transessuali in Italia e per raccogliere dati rilevanti, in particolare sulle problematiche di salute legate a questa fascia di popolazione.
I referenti del nuovo sito istituzionale InfoTrans, ci riferiscono che “i dati raccolti sono in fase di elaborazione e saranno pubblicati alla fine dello studio. Attualmente, l’analisi della letteratura internazionale suggerisce una numerosità della popolazione transgender adulta nel mondo compresa tra lo 0,5 e l’1,2%; estrapolando questi dati alla popolazione italiana si arriva ad una stima di circa 500mila persone transgender”. Più degli abitanti della città di Bologna.
In attesa dei risultati ufficiali della ricerca, quel che appare evidente è che le richieste di accesso allo Sportello Trans Ala di Milano e del Movimento identità trans (Mit) di Bologna, due dei punti di riferimento principali per la transessualità in Italia, sono in netto aumento.
“Seguiamo circa 2.000 persone ogni anno e sono sempre di più”. Commenta la presidente del Mit di Bologna e attrice Nicole De Leo. “Riceviamo quasi mille telefonate al giorno da diverse regioni italiane. Senza dubbio abbiamo strumenti mediatici più evoluti e la nostra presenza si è allargata. Lo stigma invece è cambiato poco, forse adesso è più velato, ma è ancora molto presente e l’affossamento del ddl Zan ne è la dimostrazione innegabile”.
Prima i genitori ripudiavano i figli, ora li accompagnano nella transizione
“Lo Sportello trans di Ala Milano intercetta richieste di aiuto in tutto il nord Italia e annualmente prende in carico ogni anno circa 400 persone, soprattutto giovani. La lista d’attesa per avere il primo appuntamento è anche di un mese”, spiega Antonia Monopoli. “Un primo indicatore forte di cambiamento è che ora diversi giovani vengono accompagnati dai genitori. Anzi, in molti casi sono proprio loro a contattarci. Questo fino a qualche anno fa era impensabile. Per le persone transessuali della mia generazione, la norma era essere ripudiate dalla famiglia. Per molte la situazione è ancora tale; anche a distanza di decenni il rifiuto è ancora in atto. È significativo dire che le preoccupazioni e le domande che i genitori dei figli transgender ci pongono sono identiche a quelle di ogni genitore: riuscirà ad avere una vita serena? Potrà trovare un lavoro e realizzarsi? Sarà felice?”.
I genitori dei figli transgender ci pongono domande identiche a quelle di qualsiasi genitore: riuscirà ad avere una vita serena? Potrà realizzarsi? Sarà felice?
Le transizioni da femmina a maschio (F to M) sono in aumento
“Il nostro consultorio è il punto di osservazione principale per capire l’evoluzione della dimensione trans nella società attuale”, aggiunge Nicole De Leo. “Un fenomeno recente, ad esempio, è l’aumento considerevole delle richieste di transizione da femmina a maschio (F to M), che hanno superato anche quelle da maschio a femmina (M to F). Credo che questa tendenza vada di pari passo con il processo di autodeterminazione femminile. In altre parole, il fatto che negli ultimi anni, il genere femminile abbia avuto un’evoluzione molto importante, ha permesso a molte persone di affermare più liberamente la propria identità. Devono esserci le condizioni sia interne che esterne per compiere determinati passi”.
Da donna, il mio temperamento era sempre stato dolce e gentile. Penso di esserlo ancora, ma per la gente è difficile vedere oltre gli schemi della mascolinità tradizionale
La società maschilista che accetta più facilmente la transizione da femmina a maschio
Il maschilismo pregnante si riflette anche su un diverso livello di stigmatizzazione nei confronti delle persone transgender, a seconda del genere a cui tendono. “In linea di massima, la transizione da femmina a maschio è più accettata, perché la persona si avvicina al genere considerato più forte”, commenta Antonia Monopoli.
“Su un piano estetico poi, la transizione “F to M” è meno evidente e di conseguenza più facilmente mimetizzabile. Penso ad esempio ai luoghi di lavoro. Per le “M to F” è esattamente il contrario: il livello di transfobia è più alto perché ci si allontana dal genere maschile più forte per avvicinarsi a quello più debole. Spesso poi, alcuni tratti fisici, come ad esempio la voce, l’altezza, la struttura ossea rendono la persona transgender “M to F” più facilmente riconoscibile e di conseguenza, con meno integrabile e più stigmatizzata”.
Quale futuro per gli anziani transgender?
Nella popolazione italiana sempre più longeva, in cui ormai si contano cinque persone over 65 per ogni bambino, affrontare il tema dell’anzianità è una questione urgente e complessa. La condizione delle persone transgender però è così nascosta, diversificata e soggettiva, da meritare un approfondimento specifico.
Secondo una ricerca condotta dalla Società americana di gerontologia e pubblicata dalla Oxford university press, le persone transessuali riportano una condizione di vittimizzazione, di stigma e di tentativi di suicidio maggiori rispetto agli adulti lgbt non transgender.
A essere più alta, sempre paragonata ai soggetti lgbt intervistati, è anche la tendenza degli adulti transgender ad evitare l’assistenza sanitaria, sia per il timore di rivelare la propria identità di genere sia per la percezione, e per l’esperienza diretta, dell’incapacità degli operatori sanitari di fornire cure adeguate alla loro condizione. Spesso poi hanno meno risorse finanziarie, proprio a causa delle forti discriminazioni subite in ambito professionale.
“Avendo vissuto una vita prevalentemente ai margini, con la paura del giudizio e del rifiuto, è molto difficile per le persone transgender, soprattutto over 50, creare una rete sociale solida e sicura a cui affidarsi”, spiega ancora Monopoli. “Per ovvie ragioni, la maggior parte di noi non ha figli e spesso la famiglia d’origine ha interrotto ogni tipo di relazione”.
Oltre alle persone che hanno dichiarato la propria condizione transessuale, ce ne sono altre che hanno deciso di portarsi il segreto nella tomba. Quante siano non lo sapremo mai, ma le ricerche di Vanessa Fabbre e Anna Siverskog riportano anche di anziani che, in forma anonima chiamando i numeri di assistenza, dicono di temere che qualcuno, alla loro morte, possa trovare in casa i vestiti che hanno sempre indossato di nascosto.
La diagnosi di disforia di genere mi ha aiutato, ma sto ancora lottando contro la discriminazione della gente, soprattutto della mia famiglia. A 63 anni mi sono detto: “Tutto questo deve finire e ho tutta l’intenzione di riuscirci”.
I rischi delle terapie ormonali spesso “fai da te”
Su un piano clinico, diversi studi internazionali rivelano una correlazione diretta tra l’uso delle terapie ormonali e il rischio di sviluppare patologie metaboliche dell’osso e cardiovascolari. Inoltre, fattori molto diffusi tra le persone transgender, come la depressione, lo stress e lo stile di vita non sano, aumentano il declino cognitivo, la demenza e il rischio di Alzheimeir.
“Le ricerche scientifiche sull’uso prolungato delle terapie ormonali sono molto recenti”, commenta Monopoli. “Fino a poco tempo fa, gli ormoni venivano assunti senza alcuna indicazione medica e in costante sovradosaggio. C’era il passaparola, conoscevamo i nomi dei farmaci e le farmacie in cui potevamo acquistarli. Le dosi erano da cavallo. Volevamo solo ottenere i risultati desiderati nel minor tempo possibile. Per questo oggi, nelle strutture come Sportello Trans Ala Milano, il controllo e la valutazione medica sono una priorità assoluta”.
“Alla mia età vorrei finalmente stare un po’ tranquilla”
Stefania è una donna transessuale milanese, molto bella e giovanile, nessuno direbbe che ha 68 anni. Ci ha fatto entrare in casa sua per raccontarci la sua vita, una lotta quotidiana per non soccombere e trovare stabilità.
“Sono andata via di casa a 17 anni, allora si diventava maggiorenni a 21. Non ho mai avuto dubbi sulla mia identità sessuale, nemmeno da bambina. Mi sono sempre sentita più femmina che maschio”, racconta Stefania. “Ho vissuto la gioventù a scappare dalla retate in strada, mentre lavoravamo. Ci rinchiudevano una notte in caserma e la mattina dopo ci lasciavano uscire dalla stazione centrale. Una sfilata alla luce del sole. Era umiliante perché la polizia sequestrava anche le parrucche e la gente non tratteneva commenti e giudizi. Mi hanno assegnato l’ Articolo 1, che mi definiva ‘delinquente abituale’ perché il travestimento era considerato reato e io non avevo accettato l’invito di ‘correggere’ il mio comportamento. Una persecuzione che implicava anche il ritiro della patente. Erano anche gli anni delle prime manifestazioni in piazza per reclamare i nostri diritti, sostenuti dal partito Radicale con di Emma Bonino e Marco Pannella. A salvarmi sono state le transessuali che ho preso come modello; mi hanno trasmesso il coraggio e la determinazione di evolvere, di continuare a migliorarmi nel rispetto di me stessa. Molte non ce l’hanno fatta, bastava un’umiliazione più pesante del solito per farle precipitare nel baratro di alcol e droga”.
La paura della solitudine e del non sapere a chi affidarsi
“Ora ho quasi 70 anni e sono stanca di affrontare difficoltà e umiliazioni quotidiane, legate soprattutto all’ignoranza e alla curiosità morbosa della gente”, continua Stefania. “Alla fine ho deciso di intraprendere l’iter per cambiare l’identità di genere. Ci sono situazioni a cui le persone cisgender non pensano, ma, per esempio la mia banca ha cambiato da poco tutti i dipendenti e allo sportello, con un nome anagrafico da uomo, mi sento un animale da circo perché arrivano in fila per guardarmi e ridacchiare. Ci avevo messo anni a costruire una relazione “normale” con i dipendenti precedenti e ora devo ricominciare da capo. L’ultima volta che sono stata in ospedale per una gastroscopia, durante l’esame sono entrate nove persone. Sono abituata, so come funziona, corre la voce che “c’è una trans” e tutto è concesso, siamo esseri imperfetti”, prosegue.
“Volevano mettermi anche in camera con due uomini, ma mi sono rifiutata. Puoi essere donna quanto vuoi, ma se sul documento hai un nome da uomo, quello prevale su tutto. Ormai esco pochissimo, solo per fare la spesa e passo la serata al telefono con i miei amici gay a parlare del più e del meno”. Conclude Stefania. “La solitudine mi fa paura e ho perso le persone che credevo mi sarebbero state accanto. Sto cercando di riallacciare i rapporti con alcuni membri della mia famiglia d’origine, ma mi rendo conto che per loro accettarmi fino in fondo è ancora molto difficile”.
Stefania è un nome di fantasia e lei non accetta di essere fotografata. “Temo che la visibilità possa dare fastidio a mia sorella. Non voglio rischiare che si allontani di nuovo”.
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