La nostra intervista al fratello di Muhammad al Shakhouri, condannato a morte per aver partecipato alle proteste contro il governo dell’Arabia Saudita.
In Arabia Saudita le proteste contro il regime si pagano con la vita.
Attualmente si teme per l’esecuzione di 61 persone, tra cui nove minori.
Nonostante le denunce delle associazioni per i diritti umani, Europa e Stati Uniti continuano a stringere accordi strategici con l’Arabia Saudita, dal calcio al petrolio.
Sono 143 le condanne a morte eseguite nel 2022 in Arabia Saudita. Pene capitali applicate anche a minori e a persone colpevoli di aver partecipato a qualsiasi azione di protesta contro il governo, anche solo su Twitter. Il 2022 è anche l’anno in cui diversi leader occidentali tra cui il presidente statunitense Joe Biden, il cancelliere tedesco Olaf Scholz, i premier britannici Boris Johnson prima e Rishi Sunak poi hanno cercato, anche con insistenza, la stretta di mano diplomatica con il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman per siglare accordi sull’esportazione del petrolio e ridurre la dipendenza dalla Russia.
Sempre il 2022 è l’anno in cui lo stesso principe, in ordine cronologico, ha ordinato l’esecuzione capitale di massadi 81 persone in un solo giorno, ottenuto l’immunità grazie al ruolo di primo ministro nel caso dell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi e regalato una Rolls Royce da 500mila dollari a ogni giocatore della nazionale saudita, dopo la vittoria contro l’Argentina ai mondiali del Qatar.
Attualmente, secondo le fonti dell’associazione di difesa dei diritti umani European saudi organization for human rights (Esohr) ci sono almeno 61 persone a rischio di condanna a morte, tra cui nove minori.
— European Saudi organisation for Human Rights (@ESOHumanRights) January 24, 2023
La storia di Muhammad al Shakhouri, il giovane attivista giustiziato in Arabia Saudita
Il 12 marzo 2022 a perdere la vita nell’esecuzione capitale di massa è stato anche Muhammad al Shakhouri, 34 anni. Non si sa se la morte sia sopraggiunta per impiccagione o decapitazione, nessuno dei familiari era stato avvertito e la salma non è mai stata restituita.
Per gli attivisti dell’Esohr, questo preciso trattamento è ormai diventato prassi.
Muhammad al Shakhouri fu arrestato nel febbraio del 2017, dopo aver partecipato a manifestazioni antigovernative nella provincia di Qatif, nella parte orientale dell’Arabia Saudita. Libertà e diritti erano le ragioni delle proteste portate avanti prevalentemente dalla minoranza sciita, discriminata dal regime sunnita. Durante gli anni della detenzione, Muhammad al Shakhouri è stato ripetutamente torturato con diversi strumenti, tra cui l’elettroshock, e barbaramente percosso tanto da perdere quasi tutti i denti. Per oltre dodici mesi gli è stata negata l’assistenza medica e, a visita avvenuta, non gli è stata somministrata la terapia prescritta. Di fronte al giudice, al Shakhouri ha dichiarato che la firma dell’ammissione colpevolezza gli era estorta sotto tortura. I segni erano più che evidenti, ma la sentenza è stata comunque di condanna a morte.
La storia di Muhammad al Shakhouri è solo una tra le tante storie delle vittime del regime saudita. Storie di invisibili, di morti nel buio, mentre il mondo viene accecato dallo sfarzo luccicante di Riad. Per raccontarla abbiamo intervistato suo fratello, Hamza al Shakhouri, attivista per i diritti umani in esilio in Nuova Zelanda dal 2012 perché minacciato di arresto in patria. La sua è una voce netta e senza sconti.
Che persona era suo fratello, quali erano le sue passioni? Muhammad era una persona allegra e umile, amata dalla sua famiglia e dai suoi conoscenti. Si è sempre preoccupato di aiutare gli altri senza aspettarsi nulla in cambio. Era animato da un grande rispetto per i diritti e per la vita privata. Era un idealista che non sopportava violazioni o trasgressioni. Non ha mai rinunciato ai suoi diritti, né compromesso la sua dignità.
Nonostante fosse sicuro di sé e fermo nella sua posizione, si dimostrava aperto e disponibile allo scambio di opinioni. Era un interlocutore attento e accoglieva il confronto. Amava la vita e la natura, era attratto dai viaggi avventurosi e dal mare, tanto che aveva preso il brevetto da sub per dedicarsi alle immersioni.
Lui sapeva di rischiare la vita partecipando alle rivolte. La vostra famiglia era d’accordo? Non parlo spesso della mia famiglia, perché mi considero come un rappresentante della mia comunità, della gente di Qatif e ad Al-Aqsa.
Sosteniamo una causa giusta, avanziamo richieste legittime e abbiamo un dovere umanitario. La mia famiglia è solo un esempio tra centinaia, o migliaia, di altre famiglie che hanno affrontato l’oppressione e l’ingiustizia saudita negli ultimi 100 anni, coloro che hanno pagato prezzi e sacrifici pesanti. Crediamo nelle nostre istanze e chiediamo ci vengano restituiti i diritti rubati, la libertà e la ricchezza, che il re saudita e i principi ci hanno estorto.
Decine di membri della mia famiglia hanno partecipato a manifestazioni, alcuni sono stati arrestati. I soldati sauditi hanno persino sparato e ucciso mio cugino, Akbar Al-Shakhouri, semplicemente per aver preso parte alla massiccia protesta seguita all’arresto del grande martire sciita Sheikh Nimr Al-Nimr. Tra i membri della mia famiglia stanno soffrendo nelle celle del regime saudita da oltre un decennio, alcuni rischiano di essere giustiziati. Tra loro ci sono mio cugino Muhammad Kadhem Al-Shakhouri, i figli di mio zio Adnan e Mahdi Al-Shakhouri e altri ancora. Per questo dico che la mia famiglia, come altre famiglie, ha subito l’oppressione e l’ingiustizia saudita, e sta combattendo per la libertà contro questo regime di dittatura, ben consapevoli dei rischi e delle conseguenze.
Quante volte vi è stato permesso di vedere o parlare con suo fratello dopo l’arresto?
Mio fratello è stato prelevato mentre era in strada, senza alcun mandato. Nonostante le nostre numerose richieste, inizialmente le autorità non hanno voluto rivelarci nulla. Tre giorni dopo Muhammad è stato scortato ammanettato nella sua casa per una perquisizione; è così che abbiamo saputo che era stato arrestato dai servizi segreti. Subito dopo lo hanno portato in un luogo sconosciuto e per sei mesi non abbiamo ricevuto alcuna notizia, fino al giorno in cui, per la prima volta, gli è stato permesso di telefonare a nostra madre.
Le autorità carcerarie hanno quindi consentito una telefonata di due minuti ogni settimana e una visita di 30 minuti al mese, solo per i suoi genitori e fratelli. Quanto a me, da agosto 2012, da quando cioè sono stato costretto a fuggire dal mio paese per sfuggire ai tentativi di arresto delle autorità, non ho mai potuto comunicare o incontrare nessuno dei miei familiari, nemmeno Muhammad.
Va detto chiaramente che le famiglie dei dissidenti vivono in una prigione a cielo aperto e hanno paura di comunicare tra loro per paura delle misure punitive del regime saudita.
⚠️At least 61 people are on death row. ▪️ #ESOHR believes that the number is higher due to the lack of transparency of the #Saudi government provided information. pic.twitter.com/qhQi7Qx3Er
Quali sono i ricordi di Muhammad che le affiorano più spesso alla mente? I ricordi e le foto che ho di lui risalgono ad almeno dieci fa. Era il più piccolo dei miei sei fratelli e ha potuto quindi ricevere un affetto speciale. Non ho vissuto con lui durante la sua prima infanzia. Dal 1984 sono stato attivo all’estero contro le politiche del regime saudita fino al mio ritorno nel 1993 a seguito di un’intesa tra l’opposizione sciita durante il governo di re Fahd.
Tornato a Qatif, ho incontrato di nuovo mio fratello Muhammad, il giovane energico che amava uscire e giocare a calcio con i suoi amici, fare una passeggiata nei quartieri vicini e parlare con la gente. Si divertiva a giocare con i suoi nipoti. Ho davanti a me l’immagine di mio figlio, felice, mentre suo zio lo portava in spalla. Ricordo la forza di volontà e la determinazione che metteva per realizzare le sue aspirazioni. Non ha mai ceduto alle difficoltà, perché credeva nell’impossibile.
Siete stati avvisati dell’esecuzione? No, mai. Le autorità saudite eseguono di proposito le condanne a morte senza alcun preavviso, per scioccare e traumatizzare intenzionalmente le famiglie. Per accrescere la sofferenza e aumentare l’angoscia, li privano del momento dell’addio e della possibilità di conoscere almeno le ultime volontà dei loro cari.
Come lo avete saputo?
Dai media ufficiali e dai social media. Questo avviene da circa dieci anni ormai. Le autorità di Riad scelgono di causare deliberatamente l’agonia delle famiglie dando notizia in tv ad esecuzione avvenuta, senza tenere in considerazione nulla: la fragilità e le condizioni di salute dei genitori, il fratello lontano in esilio, lo stato emotivo della moglie. Nulla. Lo stesso giorno, oltre a mio fratello, è stato giustiziato anche mio cugino, As’ad Makki Shubbar Ali. Sua moglie era incinta del secondo figlio. Appena appresa la notizia dalla televisione, si è sentita male ed è stata trasportata d’urgenza in ospedale.
Per quale ragione il regime saudita non ha restituito i corpi?
Questa domanda dovrebbe essere rivolta alle autorità criminali di Riad che violano norme e valori fondamentali e umiliano la dignità degli esseri umani, sia vivi che morti. Nessuna autorità sulla terra ha il diritto di trattenere il corpo dei giustiziati, nemmeno quello dei criminali. Qui, oltretutto, parliamo di persone innocenti, che sono state accusate di “crimini” inventati e la cui unica “colpa” è stata rivendicare i diritti fondamentali nel proprio paese e opporsi o criticare le politiche del regime al potere. L’autorità saudita può permettersi di commettere tutte queste atrocità perché ha il potere, il denaro e il petrolio per comprare il silenzio e la complicità del mondo.
Lei è in contatto con le famiglie di altri martiri? Per proteggere queste famiglie dalla brutalità e dalle violazioni del regime, non posso fornire alcun dettaglio, ma in generale sì, io sono in contatto con i membri generali della mia comunità, non solo le famiglie dei martiri giustiziati e dei detenuti. Le famiglie delle vittime attendono con impazienza il giorno in cui potranno citare in giudizio le autorità tiranniche, recuperare i corpi dei loro cari e portare i responsabili davanti ai tribunali di giustizia indipendenti.
Com’è la sua vita in esilio?
Ovunque io sia, porto la causa e il messaggio del mio popolo. Questo è il mio obbligo morale. Che io sia in Nuova Zelanda o in qualsiasi altra parte del mondo, finché sarò vivo, continuerò il mio attivismo nella lotta contro il regime dittatoriale dell’oppressione saudita a Riad con tutti i mezzi in mio potere; voce, penna, parola libera. L’unica cosa che ostacola la nostra attività di opposizione in esilio è la complicità di alcuni governi occidentali con il regime saudita, paesi che insabbiano i suoi crimini per interessi ritenuti superiori alle vite umane: armi, investimenti e titoli di stato, così come il desiderio di garantire il flusso delle forniture di petrolio. Il nostro petrolio che è stato trasformato in una maledizione contro di noi.
Crede che la guerra in Ucraina e la necessità di petrolio dell’occidente abbia reso il regime di Bin Salman ancora più intoccabile? Sicuramente. Con la sua visita a Jeddah, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha tradito tutte le promesse fatte di fronte al mondo nella sua campagna elettorale del 2020, durante la quale aveva dichiarato di voler punire, boicottare il regime di bin Salman. In generale poi, dal 2015, in cambio di un aumento del livello di produzione petrolifera saudita, abbiamo visto bin Salman girare per le maggiori capitali del mondo, che lo accolgono dimenticando tutti i crimini da lui commessi contro il nostro popolo innocente.
Cosa dovrebbero fare i cittadini europei per sostenere il popolo saudita? Prima di tutto, permettetemi di rifiutare il termine “saudita” per identificare il popolo che vive nella penisola arabica. Questo termine fasullo è stato inventato dalla mentalità tribale della famiglia Al Saud per attribuirsene la proprietà.
Per rispondere alla domanda, dico che non basta che le società civili europee si limitino a denunciare violazioni dei diritti umani o casi di detenzioni arbitrarie ed esecuzioni extragiudiziali. Questo è un processo che non finirà finché la “fabbrica” continuerà a lavorare e a produrre. La fabbrica sono i governi arabi stabiliti dal colonialismo occidentale. Si dovrebbe quindi lavorare per riparare o smantellare la fabbrica stessa invece di commentare o criticare i suoi prodotti. Il popolo della penisola arabica è in grado di rimuovere governi dittatoriali e costruire patrie libere e democratiche, a condizione che l’Europa e l’America smettano di proteggere i troni degli sceicchi petroliferi nel Golfo e smettano di fornire loro armi e altri mezzi di oppressione, tortura e terrorismo.
Cosa pensa di bin Salman progressista, capace di garantire maggiore libertà, per esempio concedendo alle donne la possibilità di guidare l’auto e di sedersi nei bar accanto agli uomini? Questi sono i trucchi che usa per mascherare la sua personalità distorta. Questo non è progresso, è inganno. È il mezzo usato dai criminali per ingannare i creduloni. Mohammed bin Salman non ha concesso alla gente alcun diritto e non ha garantito alcun livello di libertà reale. Tutto ciò che ha fatto è stato tingere la facciata del regno con colori vivaci che affascinano gli occhi di chi guarda da lontano. Tutti quelli che hanno osato criticare bin Salman sono stati rinchiusi in isolamento, diventando preda dei torturatori, compresi coloro che soffrivano di disabilità permanenti e coloro che hanno perso la vita sotto la frusta degli aguzzini.
Il vero progresso non è decorativo e non si basa su formalità, ma è un principio fondante che si manifesta nella libertà politica, nell’ampia partecipazione popolare all’amministrazione del paese e nell’assicurare organismi giudiziari e di controllo indipendenti e imparziali. Per riassumere: bin Salman ha rimosso i suoi rivali, liquidato i suoi oppositori ed esteso il controllo su tutte le capacità economiche, di sicurezza e militari del paese, trasformandosi nel sovrano assoluto.
La propaganda interna del regime funziona o le persone in Arabia Saudita vivono nella paura? Nel mio paese la maggior parte delle persone vive in uno stato di terrore e panico senza precedenti. Tutte le voci che esprimevano aspirazioni a una vita libera e dignitosa sono scomparse. Sono state strangolate le gole che invocavano la libertà di fondare partiti, di promuovere la partecipazione politica e di contrastare l’ imposizione del controllo sulla ricchezza nazionale. Ci sono state migliaia di voci libere e coraggiose che bin Salman ha assassinato, giustiziato, arrestato o o costretto a nascondersi. Oggi basta un tweet o un post su Facebook per metterti dietro le sbarre per anni senza processo, ormai esistono decine di casi del genere documentati dalle organizzazioni per i diritti umani. Questo non toglie però la presenza di un segmento della comunità locale soddisfatto delle modifiche formali apportate da bin Salman e mi riferisco alla revoca del divieto di intrattenimento.
So che è pericoloso per lei e la sua famiglia anche solo parlare con un giornalista. È mai stato minacciato? Come altri oppositori e attivisti siamo esposti alle minacce e ai pericoli delle autorità saudite. Per quanto riguarda i membri della mia famiglia rimasti a Qatif, sì, sono esposti a continue molestie, specialmente ai posti di blocco e ai valichi di frontiera quando si viaggia tra le città. Come ho detto, alcuni di loro sono stati giustiziati e arrestati, mentre alcuni sono stati rilasciati, circa sei di loro sono ancora in carcere. Quanto a me che vivo all’estero, tutte le possibilità sono ampiamente aperte. Le autorità saudite hanno un approccio coerente nello spiare gli oppositori, inseguirli, rapirli o eliminarli, ma nonostante questi pericoli e sfide, non ci arrenderemo e non rimarremo in silenzio finché le richieste non saranno soddisfatte e il nostro popolo non avrà una vita civile dignitosa, sicura e libera.
Il paese del Caucaso punta su eolico, solare e idroelettrico. Ma il legame con il petrolio è ancora forte. Quali progetti ci sono nel cassetto e che ruolo gioca l’Europa.
Israele a Gaza sta attuando politiche che privano deliberatamente la popolazione delle risorse per vivere. Per il Comitato speciale dell’Onu è genocidio.
La società di contractor accusata di aver torturato i detenuti del carcere di Abu Ghraib è stata condannata a pagare un risarcimento danni di 42 milioni