La pratica dei regimi autoritari di usare lo sport per guadagnare potere continua. Lo sportwashing si estende verso nuove discipline, come il golf e la Formula 1.
Il 12 marzo del 2022 l’Arabia Saudita comunica di aver eseguito 81 condanne a morte, uccidendo uomini accusati di essere parte di organizzazioni terroristiche, 41 di questi arrestati per aver partecipato a proteste anti-governative; poco più di dieci giorni dopo la Formula 1 si presenta con il suo carrozzone milionario nella capitale Jedda per mettere in scena il Gran premio. Senza che nessuno faccia alcun riferimento a quanto successo. Esattamente un anno dopo Amnesty International denuncia che l’Arabia Saudita ha condannato a morte almeno dodici persone accusate di reati che vanno dal terrorismo allo spaccio di stupefacenti, tutte senza un regolare processo. Il tutto nel solo mese di marzo. Neanche una settimana dopo la Formula 1 torna per il secondo Gran premio della stagione, dopo essere stato in precedenza in Bahrein. E di nuovo, nessun esponente ufficiale commenti la notizia.
È a questo punto che Yasser al-Khayyat, il cui fratello Mustafa era tra gli 81 condannati a morte del 2022, decide di scrivere una lettera a Stefano Domenicali, ex team principal della Ferrari e oggi presidente della Formula 1: “Il silenzio è complicità. Voi giustificate crimini efferati andando a correre come se nulla fosse in Arabia Saudita”. Nella sua lettera al-Khayyat lancia accuse molte pesanti puntando il dito contro la Formula 1, accusata di “sportwashing” per conto dell’Arabia Saudita che prova a usare lo sport per spostare l’attenzioni dai “mille modi” con cui calpesta i diritti umani e civili delle persone. Domenicali ha risposto che la Formula 1 vuole migliorare la situazione, e che la sua opera procede in modo diverso seguendo altre strategie. Senza specificare però quali siano.
Le nuove frontiere dello sportwashing
La strategia dell’Arabia Saudita è quella di sfruttare gli eventi sportivi, e tutte le attenzioni mediatiche che ruotano attorno ad essi, per diffondere nel mondo un’immagine diversa di sé, facendo passare in secondo piano ogni aspetto della propria politica interna. I sauditi fanno tutto ciò perché sanno che il petrolio, il loro “oro nero”, non è infinito e hanno quindi la necessità di creare nuove alleanze e nuovi rapporti di forza che possano permettergli di rimanere al centro delle dinamiche mondiali; in quest’ottica, lo sport rappresenta un collegamento perfetto, sia per entrare nelle grazie delle persone che per conquistarsi una posizione di rilievo. Inizialmente lo hanno fatto con sport meno seguiti ma comunque con un bacino d’utenza importante, come la boxe o il wrestling. Poi sono passati allo sport più popolare al mondo: il calcio, che permette di abbracciare la quasi totalità del Pianeta. Hanno iniziato invitando i vari campionati europei, sempre alla ricerca di nuovi investitori, a giocare alcune partite sul loro territorio. Da diversi anni, per esempio, la Liga spagnola gioca la propria Supercoppa proprio in Arabia Saudita e, nel farlo, ha deciso di trasformare quella che prima era una finale secca in un mini-torneo a quattro squadre. Garantire più partite permette, logicamente, di ottenere più soldi. Il modello spagnolo ha fatto gola anche alla nostra Serie A, che qualche settimana fa ha ufficializzato un accordo con i sauditi per fare esattamente la stessa cosa della Liga: la Supercoppa italiana si giocherà a Jedda e in cambio l’Arabia Saudita pagherà 23 milioni di euro alla Serie A.
Per quanto riguarda il calcio, l’operazione più articolata riguarda senza dubbio l’acquisto del Newcastle, che gioca nella Premier League inglese. È il campionato più ricco al mondo e avere una squadra in quel contesto vuol dire garantirsi una vetrina internazionale che al momento non ha eguali, non solo in termini economici – probabilmente l’aspetto che meno gli interessa – quanto in visibilità e in possibilità di entrare nel tessuto sociale. Insieme all’acquisto della squadra, il Public investement fund, ovvero un fondo di investimenti statale del Paese, ha in progetto diversi interventi nella città di Newcastle, tra centri commerciali e alberghi di ogni genere. Il perché di tutto questo è proprio quello di mostrarsi come una realtà “benefit” che mette soldi dove non ce ne sono, rendendo tutto migliore. Il Newcastle, dopo anni in cui ha vissuto nei bassi fondi della classifica inglese, ora sta lottando per un posto in Champions League, e questo fa molto felici i tifosi, che di recente, in occasione di una finale di coppa nazionale, oltre alla bandiera bianconera della propria squadra, sventolavano anche quella verde dell’Arabia Saudita. Risultati del genere permettono al Paese di entrare nelle simpatie di intere fasce della popolazione che vedono i sauditi come a coloro che hanno portato la loro squadra alla gloria. E non al Paese che condanna a morte chi prova a chiedere più libertà e diritti.
Lo sportwashing nel golf
Ma se il calcio è in grado di arrivare a ogni fascia della popolazione, ci sono altre discipline che sono molto più élitarie. Un esempio è il golf. Si tratta di uno sport che ha un pubblico ben specifico, tendenzialmente composto dalle fasce più ricche della popolazione. Per “arrivare” anche a loro, il solito fondo saudita ha messo in piedi una strategia ben precisa: ha deciso di fare concorrenza all’associazione che gestisce il golf professionistico negli Stati Uniti, il Pga tour, e nelle quale figurano i giocatori più forti al mondo. L’Arabia Saudita ha quindi messo in piedi un tour parallelo, lo ha chiamato Liv tour, un nome che gioca con il 54 scritto in numeri romani (LIV), il numero delle buche presenti nel torneo. Il circuito ha iniziato a offrire compensi enormi ai giocatori che decidono di cambiare.
L’arma principale per attrarre i golfisti è una e una sola: i soldi. In ognuno dei quattordici eventi in programma c’erano in palio 25 milioni di dollari, di cui quattro destinati al vincitore. A questa cifra bisogna anche sommare una serie di non precisati incentivi personali per convincere i giocatori a lasciare il Pga e passare al Liv tour; questo anche perché gli statunitensi, per provare a difendersi dai nuovi concorrenti, hanno deciso di escludere automaticamente da tutti i loro tornei chiunque accettasse l’offerta dei sauditi. Una minaccia che non ha sempre portato gli effetti sperati, sia perché la quantità di soldi offerti è enorme anche per uno sport ricco come il golf, sia perché lo stesso Pga tour non desta grande simpatia. Il golfista americano Phil Mickelson, nonostante abbia definito “orribile” la gestione dei diritti umani in Arabia Saudita, ha detto di aver accettato perché questa è “l’occasione della vita” per andare contro il Pga tour. Il golfista più famoso al mondo invece, Tiger Woods, ha puntato il dito contro coloro che hanno cambiato tour, accusandoli di poca riconoscenza. La vicenda è finita presto in tribunale, dove entrambi le parti accusano l’altra di concorrenza sleale.
In questa opera di “conquista” di un nuovo pubblico, e quindi di nuovi accordi e rapporti di forza, l’Arabia Saudita ha trovato un partner molto importante in Donald Trump. L’ex presidente degli Stati Uniti (e ora di nuovo candidato) per anni ha collaborato con il Pga tour offrendo i suoi campi da golf come tappa dei tornei, ma dopo l’assalto a Capitol City del 6 gennaio 2021 è stato bannato dal circuito, che ha deciso di recedere dall’accordo. Trump ha così seguito il vecchio detto secondo cui “il nemico di un mio nemico è un mio amico”, abbracciando la causa del Liv tour definendola “un’organizzazione meravigliosa”. Trump è un personaggio ancora molto influente nello scenario americano: i suoi sostenitori sono per lo più uomini bianchi, in alcuni casi molto ricchi, tendenzialmente la stessa classe sociale che segue il golf. Il fatto che quindi Trump parli dell’Arabia Saudita, sebbene indirettamente e tramite un’organizzazione sportiva, diffonde un’immagine positiva del Paese, che può quindi relazionarsi con alcune realtà in maniera differente, senza eccessivi pregiudizi. Lo sport può diventare un mezzo fondamentale per raccontarsi e mostrarsi in un modo nuovo, sicuramente di più facile comprensione rispetto ad altre azioni che difficilmente arrivano all’opinione pubblica. Parlare alle fasce più alte della popolazione americana e offrire loro uno spettacolo sportivo con i migliori golfisti del Pianeta, offre la possibilità all’Arabia Saudita di sfruttare i tornei per provare a instaurare nuove relazioni economiche e diplomatiche.
Non solo Arabia Saudita
L’Arabia Saudita non è certo la prima a mettere in piedi una strategia del genere e per trovare degli altri esempi non bisogna andare molto lontano. I vicini del Qatar da tempo dettano la linea, soprattutto nel calcio: nel 2011 hanno acquistato il Paris Saint Germain, rivoluzionando di fatto le dinamiche del calcio europeo e nel dicembre del 2022 sono riusciti a portare nel loro piccolo Paese l’evento sportivo più seguito al mondo, il Mondiale di calcio. Quella in Qatar è stata una delle edizioni più controverse di sempre, soprattutto per le condizioni di lavoro delle tante persone che hanno costruito gli stadi e non solo. Amnesty International ha presentato una lettera, firmata da oltre un milione di persone di 190 Paesi differenti, per chiedere ufficialmente alla Fifa di risarcire i lavoratori migranti “che hanno subito orribili violazioni dei diritti umani nell’organizzazione dei mondiali in Qatar”, si legge sul documento.
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I Mondiali del 2030 sono l’obiettivo annunciato anche dell’Arabia Saudita, che per completare la sua opera di sportwashing punta, esattamente come fatto dal Qatar, a ospitare il torneo, così da essere sempre più al centro dello sport mondiale, con tutto quello che ne può derivare in termini di relazioni, accordi e prestigio. In questo contesto, regolato da giochi di potere e alleanze economiche, un ruolo fondamentale possono averlo gli sportivi. Spesso però a vincere è il silenzio e le prese di posizione sono molto rare. Tornando alla Formula 1, una delle poche eccezioni da questo punto di vista è Lewis Hamilton, pilota sette volte campione del mondo, che ha dichiarato di essere poco a suo agio nel correre in Arabia Saudita perché convinto che lo sport debba fare di più per aumentare la consapevolezza di cosa succede nel mondo e aiutare chi lotta contro regimi autoritari. Finché Hamilton e le sue idee rimarranno casi isolati, la politica dello sportwashing potrà continuare indisturbata.
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